Выбрать главу

Gli occhi neri della regina sbatterono e si dilatarono. La bocca si spalancò come per urlare ancora.

Poi intorno a me la luce sparì; era come se il fuoco si fosse spento. Ma non era così, e mentre rotolavo piangendo sul tappeto, scorsi le fiamme lontane attraverso una foschia rosa cupo.

Tentai di sollevarmi. Non ci riuscii. Sentivo Marius che mi chiamava, chiamava silenziosamente il mio nome.

Poi mi sollevai leggermente, con tutto il peso premuto contro le braccia e le mani doloranti.

Gli occhi di Akasha erano fissi su di me. La testa era quasi alla mia portata e il corpo giaceva riverso, con il sangue che fiottava dal collo troncato. All’improvviso il braccio destro fremette, si sollevò, ricadde sul pavimento. Si sollevò di nuovo, con la mano penzoloni. Stava cercando di afferrare la testa!

Potevo aiutarla! Potevo usare i poteri che mi aveva dato per cercare di muoverla, di aiutarla a raggiungerla. E mentre mi sforzavo di vedere nella luce fioca, il corpo sussultò, rabbrividì e ricadde più vicino.

Ma le gemelle! Erano vicine alla testa e al corpo. Mekare fissava la testa con gli occhi vacui e cerchiati di rosso. E Maharet, come se fosse all’ultimo respiro, s’inginocchiò accanto alla sorella, sopra il corpo della Madre, mentre nella stanza il buio e il freddo crescevano e il viso di Akasha cominciava a diventare pallido e spettrale, come se tutta la luce interiore si smorzasse.

Avrei dovuto aver paura. Avrei dovuto essere atterrito. Il gelo s’insinuava in me, e sentivo il suono soffocato dei miei singhiozzi. Ma un’euforia stranissima s’impadronì di me: all’improvviso mi resi conto di ciò che vedevo.

«È il sogno», dissi. Sentivo la mia voce da una grande distanza. «Le gemelle e il corpo della Madre, lo vedete? L’immagine del sogno!»

Il sangue sgorgava dalla testa di Akasha sul tappeto. Maharet si stava abbandonando con le mani protese, e anche Mekare s’era indebolita e stava china sul corpo: ma era pur sempre la stessa immagine, e ora sapevo perché l’avevo veduta, sapevo che cosa significava!

«Il banchetto funebre!» gridò Marius. «Il cuore e il cervello, una di voi… deve prenderli in sé. È la sola possibilità!»

Sì, era così. E lo sapevano! Non era necessario che qualcuno glielo dicesse. Lo sapevano!

Quello era il significato! E tutti l’avevano visto, tutti sapevano. Me ne resi conto mentre i miei occhi si chiudevano; e quella sensazione meravigliosa si fece più profonda, quel senso di compimento, di qualcosa che finalmente si concludeva. Qualcosa di conosciuto!

Poi mi sentii galleggiare nella tenebra gelida, come se fossi fra le braccia di Akasha e stessimo ascendendo verso le stelle.

Un suono crepitante mi richiamò. Non ero ancora morto, ma morente. E dov’erano coloro che amavo?

Lottando per la vita, tentai di aprire gli occhi; sembrava impossibile; ma poi le vidi nell’addensarsi dell’oscurità… loro due, con i capelli rossi che riflettevano lo splendore del fuoco: una teneva nelle dita incrostate di fango il cervello insanguinato, l’altra il cuore sgocciolante. Erano quasi morte, con gli occhi vitrei, le membra che si muovevano come attraverso l’acqua. E Akasha era a occhi sbarrati, la bocca aperta, il sangue che sgorgava dal cranio fracassato. Mekare si portò il cervello alla bocca; Maharet le mise il cuore nell’altra mano. Mekare li consumò entrambi, li prese dentro di sé.

Di nuovo la tenebra: niente fuoco, niente punti di riferimento, nessuna sensazione eccettuato il dolore, il dolore diffuso nella cosa che ero e che non aveva arti, né occhi, né bocca per parlare. La sofferenza pulsante ed elettrica; ed era impossibile muovermi per attenuarla, per spingerla lontano da me, per tendermi o abbandonarmi. Soltanto la sofferenza.

Tuttavia mi muovevo. Mi dibattevo sul pavimento. Nella sofferenza sentii di nuovo il tappeto: sentii i miei piedi affondarvi come se cercassi di scalare una parete ripida. Poi udii il suono inconfondibile del fuoco accanto a me, sentii il vento soffiare attraverso la vetrata sfondata, e aspirai i dolci profumi della foresta che penetravano nella camera. Uno choc violento mi scosse, penetrò nei muscoli e nei pori, mi squassò le braccia e le gambe. Poi rimasi immobile.

La sofferenza era scomparsa.

Giacevo sul pavimento e ansimavo e fissavo la luce del fuoco riflessa nel soffitto di vetro e sentivo l’aria riempirmi i polmoni. Compresi che stavo piangendo di nuovo, come un bambino.

Le gemelle erano inginocchiate e ci voltavano le spalle; si tenevano abbracciate, con le teste accostate, i capelli che si mescolavano, e si scambiavano carezze delicate e tenere, come se comunicassero attraverso il tatto.

Non riuscii a reprimere i singhiozzi. Mi girai, mi coprii il viso con il braccio e piansi.

Marius mi era vicino. E anche Gabrielle. Volevo prendere Gabrielle tra le braccia. Volevo dire tutte le cose che sapevo di dover dire… che era finita e che eravamo sopravvissuti, che era finita… ma non potevo.

Poi, lentamente, girai la testa e guardai di nuovo il viso di Akasha, il viso ancora intatto, sebbene il candore splendente fosse svanito e ora fosse pallida, trasparente come vetro! Persino gli occhi, i bellissimi occhi neri come l’inchiostro, diventavano trasparenti, come se fossero privi di pigmento, come se fosse sparito con il sangue.

I capelli erano serici e morbidi sotto la guancia e il sangue coagulato era lucente e rosso come il rubino.

Non potevo smettere di piangere. Non volevo. Incominciai a dire il suo nome, ma mi rimase nella gola. Era come se non dovessi pronunciarlo. Non avrei mai dovuto farlo. Non avrei mai dovuto salire i gradini marmorei del sacrario e baciare il suo viso.

Tutti gli altri stavano ritornando alla vita. Armand teneva abbracciati Daniel e Louis, storditi e incapaci di reggersi; Khayman s’era avvicinato, seguito da Jesse, e anche gli altri stavano bene. Pandora, tremante, con le labbra contratte dal pianto, s’era fermata un po’ lontano e si stringeva le mani sulle spalle come se avesse freddo.

Le gemelle si voltarono e si alzarono. Maharet teneva abbracciata Mekare. E Mekare guardava nel vuoto, inespressiva come una statua vivente. E Maharet disse: «Ecco. La Regina dei Dannati».

PARTE QUINTA

…MONDI SENZA FINE, AMEN

Certe cose illuminano la notte e trasformano un’angoscia in un Rembrandt. Ma quasi sempre il volo rapido del tempo è uno scherzo a nostro danno. La falena non pud ridere. Che fortuna. I miti sono morti.
Stan Rice
«Poem on Crawling into Bed: Bitterness»
Body of Work (1983)

Miami.

Una città per vampiri… calda, brulicante, bellissima. Crogiolo, mercato, campo da gioco. Dove i disperati e gli avidi sono uniti in un commercio sovversivo, il cielo appartiene a tutti, la spiaggia si stende all’infinito, le luci brillano più del cielo e il mare è caldo come il sangue.

Miami. Il felice terreno di caccia del diavolo.

Ecco perché siamo qui, nella grande, elegante villa bianca di Armand su Night Island, circondati da ogni lusso concepibile e dalla notte del sud.

Là fuori, al di là dell’acqua, Miami chiama; le vittime attendono; i magnaccia, i ladri, i re della droga e gli assassini. Gli individui senza nome, i molti che sono malvagi quasi quanto me.

Armand era andato là al tramonto, con Marius; e adesso erano tornati. Armand giocava a scacchi con Santino nel salotto; Marius leggeva, come sempre, sulla poltrona di pelle accanto alla finestra affacciata sulla spiaggia.