Alla luce delle candele, lei e Marius avevano cantato insieme gli inni; lei aveva bruciato l’incenso, aveva portato i fiori, e aveva giurato di non rivelare mai l’ubicazione del santuario perché altri bevitori di sangue non venissero a eliminare Marius, a rubargli i progenitori affidati a lui e a banchettare con il sangue più potente.
Ma questo era avvenuto molto tempo prima, quando il mondo era diviso fra tribù e imperi, quando gli eroi e i sovrani venivano proclamati divinità in un giorno. A quel tempo le eleganti idee filosofiche avevano colpito la sua fantasia.
Ora sapeva cosa significava vivere in eterno. Poteva dirlo alla montagna.
Pericolo. Sentì scorrere di nuovo dentro di sé una corrente di fuoco. Poi svanì. E una rapida visione di un luogo verde e umido, di terra soffice e di vegetazione soffocante. Ma svanì quasi immediatamente.
Si soffermò, e la neve illuminata dalla luna l’abbacinò per un momento. Alzò gli occhi verso le stelle che brillavano attraverso una nube rada. Ascoltò, cercando altre voci immortali. Ma non udì nessuna trasmissione chiara e vitale… soltanto un palpito indistinto proveniente dal tempio dov’era diretta e molto più lontano, dietro di lei, dai formicai bui e sporchi della città sovraffollata, le morte registrazioni elettroniche di quel folle bevitore di sangue, «il divo del rock», il vampiro Lestat.
Era condannato, quel novellino moderno e impetuoso che aveva osato confezionare canzoni ingarbugliate con frammenti di antiche verità. Lei aveva visto tanti giovani ascendere e precipitare.
Tuttavia la sua audacia l’affascinava, anche se la sconvolgeva. Forse l’allarme che percepiva era legato in qualche modo a quelle canzoni lamentose e tuttavia sonanti?
Come osava rivelare i nomi antichi al mondo dei mortali? Sembrava impossibile, un insulto alla ragione, il fatto che un simile essere non potesse venire eliminato con noncuranza. Eppure il mostro, circondato da una celebrità improbabile, rivelava segreti che poteva aver appreso soltanto da Marius. E dov’era Marius, che per duemila anni aveva portato da un santuario segreto all’altro Coloro-che-devono-essere-conservati? Si sentiva spezzare il cuore quando pensava a Marius e ai dissidi che li avevano divisi tanto tempo prima.
Ma la voce registrata di Lestat era svanita, inghiottita da altre fievoli voci elettriche, vibrazioni che ascendevano dalle città e dai villaggi, e il grido sempre udibile delle anime mortali. Come accadeva spesso, il suo udito potente non riusciva a separare un segnale. La marea crescente l’aveva sopraffatta, informe, orribile… e la costringeva a interrompere l’ascolto. Rimase solo il vento.
Oh, come dovevano essere le voci collettive della terra per la Madre e il Padre, i cui poteri erano cresciuti inevitabilmente dagli albori della storia documentata? Avevano il potere, come lei l’aveva ancora, di interrompere il flusso o di selezionare di tanto in tanto le voci che potevano udire? Forse erano passivi in questo come in ogni altra cosa; ed era il fragore inarrestabile che li teneva inchiodati, incapaci di ragionare, mentre ascoltavano le grida interminabili, mortali e immortali, del mondo intero.
Guardò la grande vetta dentellata che le stava davanti. Doveva proseguire. Si coprì meglio il volto. Riprese a camminare.
E quando la pista la condusse a un piccolo promontorio, vide finalmente la sua destinazione. Al di là di un ghiacciaio immenso, il tempio s’innalzava da una rupe, una struttura di pietra dal candore quasi invisibile, con il campanile che scompariva nella neve turbinante.
Quanto tempo avrebbe impiegato per raggiungerlo, anche alla velocità con cui poteva camminare? Sapeva cosa doveva fare, eppure lo temeva. Doveva alzare le braccia, sfidare le leggi della natura e la propria ragione, e sollevarsi sopra l’abisso che la separava dal tempio, per discendere dolcemente solo dopo aver raggiunto l’altra parte della gola gelata. Nessun altro potere in suo possesso riusciva a farla sentire più insignificante e più lontana dall’essere umano che era stata un tempo.
Ma voleva raggiungere il tempio. Doveva farlo. E perciò alzò le braccia lentamente, con grazia consapevole. I suoi occhi si chiusero per un momento quando comandò a se stessa di sollevarsi, e sentì il suo corpo innalzarsi immediatamente, come se fosse privo di peso, una forza non ostacolata dalla sostanza, sospinto sul vento dal potere dell’intenzione.
Per un lungo momento lasciò che il vento la sballottasse, lasciò che il suo corpo andasse alla deriva. Salì ancora più in alto, distaccandosi completamente dalla terra mentre le nubi le volavano intorno e lei si volgeva verso le stelle. Com’erano pesanti i suoi indumenti: non era pronta a diventare invisibile? Non sarebbe stato quello, il passo successivo? Un granello di polvere nell’occhio di Dio, pensò. Le doleva il cuore. L’orrore di sentirsi completamente priva di legami… Le lacrime le salirono agli occhi.
E come accadeva sempre in quei momenti, il vago passato umano cui si aggrappava sembrava più che mai un mito da conservare, mentre tutte le convinzioni concrete si spegnevano. Che ho vissuto, che ho amato, che il mio corpo era caldo. Vedeva Marius, il suo creatore, non come era adesso ma com’era stato allora, un giovane immortale che ardeva di un segreto sovrannaturale: «Pandora, carissima…» «Dimmelo, ti prego.» «Pandora, vieni con me a chiedere la benedizione della Madre e del Padre. Vieni nel sacrario.»
Disancorata e disperata, avrebbe potuto dimenticare la sua destinazione, e si sarebbe lasciata andare verso il sole nascente. Ma l’allarme ritornò, il segnale silenzioso e palpitante del pericolo, e le ricordò il suo scopo. Allargò le braccia, s’impose di volgersi di nuovo verso la terra e vide il cortile del tempio con i fuochi fumanti direttamente sotto di lei. Sì, là.
La velocità della discesa la sbalordì. Per un momento infranse la sua ragione. Si ritrovò in piedi nel cortile: il suo corpo fu pervaso da una sofferenza fuggevole, poi rimase freddo e immobile.
L’urlo del vento era distante. Attraverso i muri giungeva la musica del tempio in un ritmo vertiginoso segnato da tamburi e tamburelli, mentre le voci si fondevano in un suono cupo e ripetitivo. E davanti a lei c’erano le pire che crepitavano, i cadaveri che annerivano, ammucchiati sul legname ardente. Il lezzo le dava la nausea. Eppure rimase a lungo a guardare le fiamme che divoravano lentamente la carne sfrigolante, i moncherini che annerivano, i capelli che esalavano spire di fumo bianco. L’odore la soffocava, e l’aria purifìcatrice della montagna non poteva raggiungerla.
Fissò le lontane porte lignee del sacrario interno. Ancora una volta, amaramente, valutò il suo potere. Là. E si sorprese a varcare la soglia. La porta si aprì, la luce della camera interna l’abbagliò, con l’aria calda e il canto assordante.
«Azim! Azim! Azim!» ripetevano i celebranti. Le volgevano le spalle e si accalcavano al centro del tempio illuminato dalle candele, con le mani levate giravano i polsi, allo stesso ritmo con cui muovevano le teste. «Azim! Azim! Azim-Azim-Azim-Azim! Aaaah-ziiim!» Il fumo saliva dagli incensieri; uno sciame interminabile di figure che giravano scalze su se stesse ma non la vedevano. Avevano gli occhi chiusi, le facce scure erano levigate e soltanto le bocche si muovevano per ripetere il nome riverito.
Avanzò in mezzo alla calca di uomini e donne laceri, altri avvolti in sete colorate e tintinnanti di gioielli d’oro: tutti ripetevano l’invocazione con agghiacciante monotonia. Sentiva l’odore della febbre, della fame, dei morti caduti nella ressa, dimenticati nel delirio collettivo. Si aggrappò a una colonna marmorea, come per ancorarsi nel torrente tumultuoso di movimento e di chiasso.
Poi vide Azim in mezzo alla folla. La pelle di bronzo scuro era umida e lucida nella luce delle candele, la testa era avvolta in un turbante di seta nera, le lunghe vesti ricamate erano macchiate d’un miscuglio di sangue mortale e immortale. Gli occhi neri, cerchiati di kohl, erano enormi. Nel ritmo dei tamburi, danzava ondeggiando e spingendo in avanti i pugni per poi ritrarli come se li battesse contro un muro invisibile. I piedi calzati da babbucce percuotevano il pavimento di marmo con un ritmo frenetico. Un filo di sangue gli colava dagli angoli della bocca, e la sua espressione era totalmente assorta.