Quando finalmente Daniel arrivava a Night Island, Armand negava.
«Sei tornato da me perché lo volevi, Daniel», diceva sempre con calma radiosa e gli occhi pieni d’amore. «Ormai per te non c’è più nulla, tranne me. Lo sai. Là fuori è in agguato la pazzia.»
«La solita musica», rispondeva invariabilmente Daniel. E tutto quel lusso inebriante, i letti soffici, la musica, il bicchiere di vino nella sua mano. Le stanze erano sempre piene di fiori, le pietanze che preferiva gli venivano servite su piatti d’argento.
Armand stava adagiato su un’enorme poltrona di velluto nero e guardava la televisione, Ganimede con i calzoni bianchi e la camicia di seta bianca, seguendo i notiziari, i film, i nastri che aveva fatto di se stesso mentre leggeva poesie, le stupide situation comedy, i drammi, i musical, i film muti.
«Vieni, Daniel, siediti. Non mi aspettavo che ritornassi tanto presto.»
«Figlio di puttana», diceva Daniel. «Mi volevi qui e mi hai chiamato. Non riuscivo a mangiare e a dormire, niente, vagabondavo e pensavo a te. Sei stato tu.»
Armand sorrideva, a volte rideva addirittura. Aveva una bella risata, eloquente di gratitudine e di gaiezza. Quando rideva, sembrava mortale. «Calmati, Daniel. Ti batte il cuore. Mi fa paura.» Una piccola grinza sulla fronte liscia, la voce resa per un momento più profonda dalla compassione. «Dimmi che cosa vuoi, Daniel, e te lo darò. Perché continui a fuggire?»
«Tu menti, bastardo! Dì che mi volevi. Mi tormenterai in eterno, vero? e poi mi guarderai morire, e lo troverai interessante. Era vero ciò che diceva Louis. Li guardi morire, i tuoi schiavi umani: non significano nulla per te. Guarderai la mia faccia cambiar colore mentre muoio.»
«Questo è il linguaggio di Louis», diceva con pazienza Armand. «Ti prego, non citarmi quel libro. Preferirei morire io, piuttosto che morissi tu, Daniel.»
«E allora dammela, maledizione, l’immortalità così vicina… vicina come le tue braccia.»
«No, Daniel, perché preferirei morire piuttosto che fare questo.»
Ma anche se non era Armand a causare la follia che riportava a casa Daniel, sicuramente sapeva sempre dov’era. Poteva udire il richiamo. Il sangue li legava, doveva essere così… le preziose, minuscole gocce dell’ardente sangue sovrannaturale. Non era mai abbastanza per far più che destare i sogni in Daniel, e la sete d’eternità, e far danzare e cantare i fiori della tappezzeria. Comunque Armand riusciva sempre a trovarlo: su questo non aveva dubbi.
Nei primi anni, prima dello scambio del sangue, Armand aveva perseguitato Daniel con l’astuzia di un’arpia. Non c’era stato luogo sulla terra dove Daniel potesse nascondersi.
Era agghiacciante. Un tentatore. L’inizio a New Orleans, dodici anni prima, quando Daniel era entrato in una vecchia casa cadente del Garden District, aveva compreso subito d’essere nel covo del vampiro Lestat.
Dieci giorni prima aveva lasciato San Francisco dopo la lunga intervista con il vampiro Louis, tormentato dalla conferma finale del racconto spaventoso che aveva ascoltato. Con un abbraccio improvviso, Louis aveva dimostrato il potere sovrannaturale di svuotare Daniel fin quasi al punto di morte. Le ferite delle trafitture erano scomparse, ma il ricordo aveva lasciato Daniel sull’orlo della follia. Febbricitante, a volte in delirio, aveva viaggiato per non più di poche centinaia di chilometri al giorno. Nei modesti motel lungo il percorso, dove s’imponeva di mangiare qualcosa, aveva duplicato a uno a uno i nastri dell’intervista, e aveva mandato le copie a un editore di New York, in modo che il libro era già quasi pronto prima ancora che giungesse davanti alla porta di Lestat.
Ma la pubblicazione aveva avuto un’importanza secondaria: era stata un evento collegato ai valori di un mondo sempre più lontano.
Doveva trovare il vampiro Lestat. Doveva stanare l’immortale che aveva creato Louis e che sopravviveva tuttora in quella vecchia, umida città decadente e bellissima, forse in attesa che Daniel lo destasse, lo conducesse nel secolo che lo aveva terrorizzato e l’aveva spinto a nascondersi sottoterra.
Sicuramente era ciò che voleva Louis. Altrimenti perché avrebbe dato all’emissario mortale tanti indizi precisi sul luogo dove si poteva trovare Lestat? Eppure alcuni dettagli erano fuorvianti. Era un doppio gioco da parte di Louis? Tutto sommato non aveva importanza. Daniel aveva trovato l’atto di proprietà e il numero civico sotto un nome inconfondibile: Lestat de Lioncourt.
Il cancello di ferro non era neppure chiuso a chiave; e quando s’era aperto sulla strada nel giardino incolto, era riuscito facilmente a spezzare la serratura arrugginita del portone.
Era entrato e s’era aiutato con una piccola lampada tascabile. Ma c’era anche la luna che brillava bianca fra i rami delle querce. Daniel aveva visto chiaramente le file dei libri ammucchiati fino al soffitto in ogni stanza. Nessun umano avrebbe potuto o voluto fare una cosa tanto folle e metodica. E su, nella camera da letto, s’era inginocchiato sulla polvere spessa che copriva il tappeto imputridito e aveva trovato l’orologio d’oro da taschino con il nome di Lestat.
Ah, quel momento agghiacciante, il momento in cui il pendolo s’era allontanato da una demenza crescente per tendere a una passione nuova… avrebbe cercato fino ai confini della terra gli esseri pallidi e letali dei quali aveva appena intravisto l’esistenza.
Che cosa aveva desiderato in quelle prime settimane? Sperava di giungere a possedere gli splendidi segreti della vita? Sicuramente, da quella conoscenza non avrebbe guadagnato uno scopo per un’esistenza già carica di delusioni. No, voleva allontanarsi da tutto ciò che un tempo aveva amato. Aspirava al mondo violento e sensuale di Louis.
Il male. Non gli faceva più paura.
Forse era come l’esploratore sperduto che, avanzando nella giungla, vede all’improvviso davanti a sé il muro del tempio favoleggiato, con i rilievi coperti da ragnatele e rampicanti; e non ha importanza se forse non sopravvivrà per raccontare la sua scoperta… ha veduto la verità con i propri occhi.
Ma se avesse potuto aprire un poco di più la porta, per vedere tutta la magnificenza… Se l’avessero lasciato entrare! Forse desiderava solo vivere in eterno. Qualcuno poteva biasimarlo per questo?
Si era sentito forte e sicuro solo tra le rovine della vecchia casa di Lestat, con le rose selvatiche che entravano dalla finestra sfondata e il letto a baldacchino ridotto a uno scheletro, con i tendaggi ormai marci.
Vicino a loro, vicino alla loro tenebra preziosa, alla loro meravigliosa oscurità divorante. Come aveva amato la desolazione, le sedie intagliate e ammuffite, i brandelli di velluto e gli esseri striscianti che finivano di distruggere il tappeto.
Ma la reliquia, ah, la reliquia era tutto, lo splendente orologio d’oro che portava il nome di un immortale!
Dopo un po’ aveva aperto l’armoire. Le marsine nere erano andate a pezzi quando le aveva toccate. Sulle assi di cedro stavano gli stivali raggrinziti.
Ma, Lestat, tu sei qui. Aveva preso il registratore, l’aveva posato, aveva inserito il primo nastro e aveva lasciato che la voce di Louis si levasse sommessa nella stanza piena d’ombre. I nastri avevano continuato a girare per ore e ore.
Poi, poco prima dell’alba, aveva visto una figura nel corridoio, e aveva compreso che intendeva farsi vedere da lui. Aveva visto il chiaro di luna investire il volto fanciullesco, i capelli fulvi. La terra s’era inclinata, la tenebra era discesa. L’ultima parola che aveva pronunciato era stata il nome, Armand.
Avrebbe dovuto morire allora. Era stato un capriccio a tenerlo in vita?
S’era destato in una cantina buia e umida. L’acqua colava sulle pareti. Brancolando nell’oscurità aveva scoperto una finestra murata, una porta chiusa a chiave e ricoperta d’acciaio.