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E il suo conforto era l’aver trovato un altro dio del pantheon segreto… Armand, il più vecchio tra gli immortali descritti da Louis. Armand, il capo della congrega del Teatro dei Vampiri di Parigi, che aveva confidato a Louis il segreto terribile: non si sa nulla delle nostre origini.

Per tre giorni e tre notti, forse, Daniel era rimasto a giacere in quella prigione. Era impossibile dirlo. Senza dubbio era stato sul punto di morire: il lezzo della sua urina lo nauseava, gli insetti lo facevano impazzire. Ma il suo era un fervore religioso. Si era avvicinato alle tenebrose verità palpitanti che Louis aveva rivelato. Tra la coscienza e l’incoscienza, aveva sognato Louis, che gli parlava nella stanzetta lurida di San Francisco, vi sono sempre stati esseri come noi, sempre, Louis che l’abbracciava, gli occhi verdi che si oscuravano mentre lasciava che Daniel gli vedesse le zanne.

La quarta notte Daniel s’era svegliato e aveva compreso immediatamente che qualcuno o qualcosa era nella stanza. La porta era aperta su un corridoio. Si sentiva l’acqua scorrere più rapida, come in una fogna sotterranea. Lentamente i suoi occhi si erano abituati alla luce sporca e verdognola che giungeva dal vano della porta. E allora aveva visto la figura pallida contro la parete.

L’abito nero era immacolato, la camicia bianca inamidata… sembrava l’imitazione di un uomo del ventesimo secolo. E i capelli fulvi erano tagliati corti, le unghie avevano una fioca lucentezza persino nella semioscurità. Come un cadavere pronto per la bara… così asettico, così ben preparato.

La voce era gentile, con un lieve accento. Non era europeo: più secco e nel contempo più sommesso. Forse arabo o greco… quel tipo di musicalità. Le parole erano lente, prive di collera.

«Vattene. Porta via i tuoi nastri. Sono lì, accanto a te. So del tuo libro. Nessuno ci crederà. Adesso vattene e porta via quella roba.»

Allora non mi ucciderai. E non farai di me uno di voi. Erano pensieri stupidi e disperati, ma non poteva evitarli. Aveva visto il potere! Non erano menzogne o inganni. E s’era accorto di piangere, indebolito dalla paura e dalla fame, ridotto come un bambino impaurito.

«Fare di te uno di noi?» L’accento era diventato più intenso, aveva conferito un suono cantilenante alle parole. «Perché dovrei farlo?» Gli occhi s’erano socchiusi. «Non lo farei per quelli che giudico spregevoli, che vorrei veder bruciare nell’inferno. Perché dovrei farlo a uno sciocco ingenuo come te?»

Lo voglio. Voglio vivere in eterno. Daniel s’era sollevato a sedere, s’era alzato in piedi lentamente, cercando di vedere più chiaramente Armand. In fondo al corridoio era accesa una lampadina fioca. Voglio stare con Louis e con te.

Una risata, smorzata e gentile. Ma sprezzante. «Capisco perché lui ti ha scelto come confidente. Sei ingenuo e bello. Ma la bellezza potrebbe essere l’unica ragione, sai.»

Silenzio.

«I tuoi occhi hanno un colore poco comune, quasi violetto. E sei stranamente audace e implorante nello stesso momento.»

Donami l’immortalità. Donamela!

Un’altra risata. Quasi triste. Poi silenzio, l’acqua che scorreva rapida a distanza. La camera era diventata visibile, una lurida tana sotterranea. E la figura era quasi mortale. C’era un lieve riflesso rosato sulla pelle liscia.

«Era tutto vero, ciò che lui ti ha detto. Ma nessuno lo crederà. E con il tempo, questa conoscenza ti farà impazzire. Accade sempre così. Ma non sei ancora pazzo.»

No. È reale, ciò che sta accadendo. Tu sei Armand, e parliamo. E io non sono pazzo.

«No. Trovo piuttosto interessante… il fatto che tu sappia il mio nome e che sia vivo. Non ho mai detto il mio nome a nessuno… che sia vivo.» Armand aveva esitato. «Non voglio ucciderti. Non voglio ucciderti ora.»

Daniel aveva provato il primo tocco di paura. Se guardavi quegli esseri abbastanza da vicino, potevi vedere cos’erano. Era stata la stessa cosa con Louis. No, non erano vivi. Erano atroci imitazioni dei viventi. E quello splendente manichino d’un giovane!

«Ti lascerò uscire da qui», aveva detto Armand. Educatamente, sottovoce. «Voglio seguirti, sorvegliarti, vedere dove vai. Finché ti troverò interessante, non ti ucciderò. E naturalmente, potrei anche disinteressarmi totalmente di te e non degnarmi neanche di ucciderti. È sempre possibile. Puoi sperare. E forse, se sarai fortunato, perderò le tue tracce. Ho i miei limiti, naturalmente. Hai tutto il mondo a disposizione e puoi muoverti di giorno. Ora va’. Fuggi. Voglio vedere che cosa fai, voglio sapere che cosa sei.»

Ora va’. Fuggi.

Aveva preso l’aereo di quella mattina per Lisbona, stringendo nella mano l’orologio d’oro di Lestat. Eppure due notti più tardi, a Madrid, s’era voltato e aveva visto Armand seduto su un autobus accanto a lui, a pochi centimetri di distanza. Dopo una settimana, a Vienna, aveva guardato dalla vetrata di un caffè e aveva visto Armand che lo spiava dalla strada. A Berlino, Armand era salito in tassi al suo fianco, ed era rimasto a fissarlo fino a che Daniel era balzato giù in mezzo al traffico ed era corso via.

Ma nel giro di pochi mesi, quegli incontri muti e sconvolgenti avevano lasciato il posto ad assalti più vigorosi.

S’era svegliato in una stanza d’albergo a Praga e aveva trovato Armand in piedi accanto a lui, in preda a una rabbia violenta. «Parla! Te lo ordino! Svegliati! Voglio che esci con me, che mi mostri tante cose in questa città. Perché sei venuto proprio qui?»

Mentre attraversava la Svizzera in treno, aveva alzato gli occhi e aveva visto Armand seduto di fronte a lui, intento a osservarlo al di sopra del bavero rialzato del cappotto foderato di pelliccia. Armand gli aveva strappato il libro dalle mani e aveva preteso che gli spiegasse che cos’era e perché lo leggeva e cosa significava l’illustrazione della copertina.

A Parigi, Armand l’aveva seguito ogni notte nei boulevard e nelle viuzze, e ogni tanto gli aveva fatto domande sui luoghi dove andava, sulle cose che faceva. A Venezia, quando s’era affacciato dalla stanza al Danieli, aveva scorto Armand che lo scrutava dalla finestra di fronte.

Poi erano trascorse settimane senza apparizioni. Daniel vacillava fra il terrore e una strana attesa, e dubitava della propria ragione. Ma c’era Armand ad aspettarlo all’aeroporto di New York. E la notte successiva a Boston, Armand era nella sala da pranzo del Copley quando lui era entrato. La cena per Daniel era già stata ordinata. «Prego, accomodati. Sai che Intervista con il Vampiro è uscito nelle librerie?»

«Devo confessare di gradire questa piccola misura di notorietà», aveva detto Armand con una cortesia squisita e un sorriso perverso. «Mi sconcerta, invece, che tu non cerchi la notorietà. Non ti presenti come scrittore, il che significa che sei molto modesto o molto vile. Entrambe le spiegazioni però sarebbero molto banali.»

«Non ho fame, andiamocene», aveva risposto fiaccamente Daniel. Eppure i piatti venivano messi in tavola uno dopo l’altro e tutti lo guardavano.

«Non sapevo che cosa preferissi», aveva confidato Armand, con un sorriso estatico. «Perciò ho ordinato tutto quel che avevano.»

«Credi di riuscire a farmi impazzire, vero?» aveva ringhiato Daniel. «Be’, non ce la farai. Lascia che te lo dica. Ogni volta che ti vedo, mi rendo conto che non ti ho inventato e che sono sano di mente!» E aveva incominciato a mangiare di buon appetito… un po’ di pesce, un po’ di manzo, un po’ di vitello, qualche dolce, un pezzetto di formaggio, un po’ di tutto, e tutto insieme perché tanto non gliene importava nulla, e Armand era apparso felice, e aveva riso e riso come un ragazzino mentre l’osservava a braccia conserte. Era la prima volta che Daniel sentiva quella risata sommessa. Così seducente. S’era ubriacato in fretta.

Gli incontri erano diventati sempre più lunghi. Conversazioni, schermaglie e aperti litigi erano la regola. Una volta Armand aveva trascinato dal letto Daniel a New Orleans e gli aveva gridato: «Quel telefono. Voglio che chiami Parigi. Voglio vedere se può veramente parlare con Parigi».