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«Dannazione, puoi farlo tu!» aveva gridato Daniel. «Hai cinquecento anni e non sai usare un telefono? Leggi le istruzioni. Che cosa sei, un immortale idiota? Non mi presto al tuo gioco.»

Armand s’era mostrato sorpreso.

«D’accordo. Chiamerò Parigi. Ma tu pagherai il conto.»

«Certo», aveva detto Armand con fare innocente. Aveva estratto dalla giacca dozzine di biglietti da cento dollari, e li aveva sparsi sul letto di Daniel.

Negli incontri, parlavano sempre più spesso di filosofia. Una volta Armand aveva fatto uscire Daniel da un teatro, a Roma, e gli aveva chiesto cosa pensava veramente che fosse la morte. Coloro che erano ancora vivi sapevano certe cose! Daniel sapeva che cosa temeva davvero Armand?

Era mezzanotte passata, e Daniel era ubriaco ed esausto, e s’era addormentato a teatro prima che Armand lo trovasse. E non gli importava nulla.

«Ti dirò che cosa temo», aveva detto Armand, con l’intensità di un giovane studente. «Dopo la morte viene il caos, ed è un sogno dal quale non puoi svegliarti. Immagina di aleggiare tra la coscienza e l’incoscienza e di cercare invano di ricordare chi sei e che cosa eri. Immagina di cercare in eterno la perduta chiarezza del vivere…»

Daniel s’era spaventato. C’era qualcosa di vero. Non si parlava forse di medium che conversavano con presenze incoerenti e tuttavia potenti? Non lo sapeva. Come diavolo poteva saperlo? Forse quando morivi non c’era nulla. Questo terrorizzava Armand, che non faceva nulla per nascondere la sua angoscia.

«Non pensi che terrorizzi anche me?» aveva chiesto Daniel, fissando la figura dal volto pallidissimo che gli stava accanto. «Quanti anni mi restano? Puoi dirlo semplicemente guardandomi? Dimmelo.»

Quando Armand lo aveva svegliato a Port-au-Prince, smaniava di parlare di guerra. Cosa pensavano veramente della guerra gli uomini di quel secolo? Daniel sapeva che Armand era un ragazzo quando era incominciato tutto? Diciassette anni, e a quei tempi erano pochi, molto pochi. Nel ventesimo secolo i diciassettenni erano veri mostri, avevano la barba e il pelo sul petto, ma erano bambini. Allora no. Eppure i bambini lavoravano come se fossero uomini.

Ma è meglio non lasciarsi distrarre. Il fatto era che Armand non sapeva cosa provavano gli uomini. Non l’aveva mai saputo. Oh, certo, aveva conosciuto i piaceri della carne, questo era logico. A quei tempi nessuno pensava che i bambini fossero innocenti dei piaceri sensuali. Ma sapeva poco della vera aggressività. Uccideva perché era la sua natura di vampiro; e il sangue era irresistibile. Ma perché gli uomini trovavano irresistibile la guerra? Cos’era il desiderio di scontrarsi violentemente con le armi contro la volontà di un altro? Cos’era il bisogno fisico di uccidere?

In quei momenti Daniel faceva del suo meglio per rispondere: per alcuni uomini era il bisogno di affermare la propria esistenza mediante l’annientamento di un altro. Sicuramente Armand doveva conoscere queste cose.

«Conoscere? Conoscere? Che importanza ha se non capisci?» aveva chiesto Armand con un accento reso più netto dall’agitazione. «Se non puoi procedere da una percezione a un’altra? Non capisci? È ciò che io non posso fare.»

Quando aveva incontrato Daniel a Francoforte, era stata la natura della storia, l’impossibilità di scrivere una spiegazione coerente degli eventi che non fosse di per sé una menzogna. L’impossibilità della verità servita da affermazioni generiche, e l’impossibilità di apprendere procedendo senza di esse.

Ogni tanto quegli incontri non s’erano svolti all’insegna esclusiva dell’egoismo. In una locanda della campagna inglese Daniel era stato svegliato dalla voce di Armand che lo avvertiva di andarsene subito. Un incendio aveva distrutto la locanda dopo meno di un’ora.

Un’altra volta Daniel era finito in prigione a New York per ubriachezza e vagabondaggio quando Armand era comparso e gli aveva pagato la cauzione: sembrava fin troppo umano, come sempre dopo che si era nutrito, un giovane avvocato in giacca di tweed e pantaloni di flanella. Aveva accompagnato Daniel in una stanza al Carlyle e l’aveva lasciato a smaltire la sbronza nel sonno, con una valigia piena di abiti nuovi e un portafoglio pieno di denaro in una delle tasche.

Finalmente, dopo un anno e mezzo di quella follia, Daniel aveva cominciato a interrogare Armand. Com’era stata l’esistenza a Venezia, a quei tempi? «Guarda questo film ambientato nel secolo decimottavo e dimmi cosa c’è che non va.»

Ma Armand non aveva reagito. «Non posso dirti queste cose perché non rientrano nella mia esperienza. Vedi, ho una ben scarsa capacità di sintetizzare la conoscenza. Mi occupo dell’immediato con lucida intensità. Com’era a Parigi? Chiedimi se pioveva la notte di sabato 5 giugno 1793. Forse potrò dirtelo.»

Eppure in altri momenti parlava concitatamente delle cose che gli stavano intorno, dello strano, sgargiante lindore di quell’epoca, dell’orrida accelerazione dei cambiamenti.

«Guarda le invenzioni rivoluzionarie che diventano inutili o superate entro lo stesso secolo: il piroscafo, le ferrovie. Eppure sai cosa significavano dopo seimila anni di galere ai remi e di uomini a cavallo? Adesso le ragazzette comprano una sostanza chimica per uccidere il seme dei loro amanti, e vivono fino a settantacinque anni in stanze piene di aggeggi che rinfrescano l’aria e mangiano la polvere. Eppure, nonostante tutti i film in costume e i romanzi tascabili che trovi anche nei supermercati, il pubblico non ha un ricordo accurato di nulla; ogni problema sociale viene osservato in relazione a ‘norme’ che in realtà non sono mai esistite, e la gente si ritiene ‘privata’ di lussi e di tranquillità e di pace che in realtà non sono mai stati comuni per nessun popolo del mondo.»

«Ma la Venezia dei tuoi tempi, parlamene…»

«Cosa devo dire? Che era sporca? Che era bella? Che la gente andava in giro coperta di stracci, con i denti guasti e l’alito fetido e rideva alle esecuzioni? Vuoi conoscere la differenza fondamentale? In questi tempi c’è una solitudine agghiacciante. No, ascoltami. Noi vivevamo in sei o sette per stanza, allora, quando ero ancora tra i vivi. Le vie della città erano mari di umanità; e adesso in questi palazzi altissimi le anime stupide sono circondate da un’intimità lussuosa, e attraverso la finestra della televisione guardano un mondo lontano di baci e di carezze. È inevitabile che produca un grande patrimonio di conoscenza comune, un livello nuovo di coscienza umana, un curioso scetticismo, lo stare tanto soli.

Daniel era affascinato, e a volte cercava di mettere per iscritto le cose che gli diceva Armand. Tuttavia Armand continuava a fargli paura. Daniel era sempre in fuga.

Non sapeva con esattezza quanto tempo fosse passato prima che smettesse di fuggire, anche se era impossibile dimenticare quella notte.

Forse erano trascorsi quattro anni dall’inizio del gioco. Daniel aveva passato una lunga estate tranquilla nell’Italia meridionale senza vedere neppure una volta il suo demone familiare.

In un modesto albergo a mezzo isolato dalle rovine dell’antica Pompei aveva letto e scritto e cercato di definire le trasformazioni causate in lui dalla visione del sovrannaturale, e aveva pensato che avrebbe dovuto imparare nuovamente a desiderare, a immaginare e a sognare. L’immortalità su questa terra era davvero possibile. Lo sapeva senza il minimo dubbio: ma che importanza aveva se non poteva averla?

Di giorno camminava per le strade devastate, tra i reperti di città romana riportata alla luce dagli scavi. E quando la luna era piena vi ritornava, solo, anche di notte. Gli sembrava di aver ritrovato la ragione. E forse presto sarebbe ritornata anche la vita. Le foglie verdi avevano un odore fresco quando le schiacciava fra le dita. Guardava le stelle e provava più tristezza che risentimento.