Eppure in altri momenti desiderava Armand come un elisir cui non poteva rinunciare. L’energia tenebrosa che l’aveva acceso per quattro anni, adesso gli mancava. Sognava che Armand gli fosse accanto; si svegliava piangendo come uno stupido. Poi veniva il mattino, e allora si sentiva triste ma calmo.
E finalmente Armand era ritornato.
Era tardi, forse le dieci di sera; e il cielo, come avveniva spesso nell’Italia meridionale, era di un blu fulgido. Daniel stava camminando tutto solo lungo la strada che conduce da Pompei alla Villa dei Misteri e si augurava che i guardiani non venissero ad allontanarlo.
Appena aveva raggiunto l’antica casa, era sceso uno strano silenzio. Non c’erano guardiani. Non c’era anima viva. Solo l’apparizione improvvisa di Armand davanti all’entrata. Di nuovo Armand.
Era uscito senza far rumore dall’ombra al chiaro di luna, un ragazzo con i jeans sporchi e il giubbotto di tela tutto liso, gli aveva passato il braccio intorno alle spalle e lo aveva baciato dolcemente sul viso. Una pelle così tiepida, satura del sangue fresco di una preda. Daniel aveva l’impressione di sentirlo, il profumo della vita che ancora aderiva ad Armand.
«Vuoi entrare in questa casa?» aveva bisbigliato Armand. Non c’erano serrature che potessero impedirgli di entrare in un luogo. Daniel tremava e stava per piangere. E perché? Era così lieto di vederlo, di toccarlo, ah, maledetto!
Erano entrati nelle camere buie e basse, e la pressione del braccio di Armand contro la sua schiena gli dava uno strano conforto. Ah, sì, l’intimità, perché era di questo che si trattava. Tu, il mio…
Il mio amante segreto.
Sì.
La rivelazione era venuta a Daniel mentre stavano insieme nel triclinio in rovina, con i famosi affreschi della flagellazione rituale appena visibili nel buio. Non mi ucciderà, dopotutto. Non lo farà. Naturalmente non mi farà diventare come lui, ma non mi ucciderà. La danza non finirà così.
«Ma com’è possibile che non lo sapessi?» aveva detto Armand leggendogli nel pensiero. «Ti amo. Se non avessi finito per amarti ti avrei ucciso molto prima, naturalmente.»
Il chiaro di luna filtrava attraverso le grate di legno. Le figure degli affreschi prendevano vita sullo sfondo rossocupo, il colore del sangue secco.
Daniel fissava l’essere che gli stava davanti, la cosa che sembrava umana ma non lo era. C’era un soprassalto mostruoso nella sua coscienza: vedeva quell’essere come un grande insetto, un predatore malefico che aveva divorato un milione di vite umane. Eppure l’amava. Amava la pelle bianca e liscia, i grandi occhi scuri. L’amava non perché sembrava un uomo giovane e gentile, ma perché era terribile e odioso, e nello stesso tempo bellissimo. L’amava come la gente ama il male, perché l’eccita fino nel profondo dell’anima. Immagina, uccidere così, prendere la vita agli altri quando vuoi, affondare i denti nella gola di un altro e prendere tutto ciò che la vita può dare.
Guarda i suoi indumenti. Camicia di cotone blu, giubbotto di tela con i bottoni d’ottone. Dove li aveva presi? Li aveva tolti a una vittima, sì: era come estrarre il coltello e scuoiare la preda mentre è ancora calda. Non era strano che sapessero di sale e di sangue, anche se non avevano macchie. E i capelli tagliati corti, come se non stessero per ricrescere entro ventiquattr’ore per arrivargli come al solito alle spalle. Questo è il male. Questa è l’illusione. Questo è ciò che voglio essere, ed è per questo che non sopporto di guardarlo.
Le labbra di Armand s’erano mosse in un sorriso gentile, un po’ misterioso. Poi gli occhi s’erano appannati e s’erano chiusi. S’era chinato verso Daniel e gli aveva premuto le labbra sul collo.
E ancora una volta, com’era accaduto in una stanzetta di Divisadero Street a San Francisco con il vampiro Louis, Daniel aveva sentito i denti acuminati trapassargli la pelle. Una fitta improvvisa, un calore palpitante. «Hai deciso di uccidermi, finalmente?» Era assonnato e ardeva, pieno d’amore. «Sì, sì.»
Ma Armand aveva bevuto solo poche gocce. Aveva lasciato Daniel e gli aveva premuto gentilmente le mani sulle spalle, costringendolo a inginocchiarsi. Daniel aveva alzato gli occhi e aveva visto il sangue scorrere dal polso di Armand. Al sapore di quel sangue, grandi scosse elettriche lo avevano investito. In un lampo gli era parso che Pompei fosse pervasa di sussurri e di pianti, dell’impronta vaga e pulsante delle sofferenze e delle morti lontane. Migliaia di persone che perivano tra il fumo e la cenere. Migliaia di persone che morivano insieme. Insieme. Daniel s’era aggrappato ad Armand. Ma il sangue non c’era più. Solo poche gocce… niente altro.
La mattina seguente, quando s’era svegliato nel letto dell’Excelsior di Roma, Daniel sapeva che non sarebbe più fuggito lontano da Armand. Meno di un’ora dopo il tramonto, Armand era tornato. Sarebbero partiti per Londra, la macchina li attendeva per portarli all’aereo. Ma c’era abbastanza tempo per un altro abbraccio, un altro piccolo scambio di sangue. «Qui dalla mia gola», aveva sussurrato Armand, guidandogli la testa con la mano. Un palpito meraviglioso, silenzioso. La luce della lampada si espandeva, si ravvivava, cancellava la stanza.
Amanti. Sì, era diventata una relazione estatica e travolgente.
«Tu sei il mio insegnante», gli aveva detto Armand. «Dovrai dirmi tutto di questo secolo. Sto già apprendendo segreti che mi erano sfuggiti fin dall’inizio. Dormirai dopo il sorgere del sole, se vuoi, ma le notti saranno mie.»
Si lanciarono nel mezzo della vita. Armand era un genio della simulazione, e poiché ogni sera uccideva presto, poteva passare per umano dovunque andassero. In quelle prime ore la sua pelle scottava, il suo volto era pieno di curiosità appassionata, i suoi abbracci erano rapidi e febbrili.
Sarebbe stato necessario un altro immortale per reggere il suo ritmo. Daniel sonnecchiava alle sinfonie e all’opera e durante le centinaia di film che Armand lo trascinava a vedere. Poi c’erano le feste interminabili e chiassose da Chelsea a Mayfair, dove Armand discuteva di politica e di filosofia con gli studenti o con le signore della moda, o con chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. I suoi occhi s’inumidivano per l’eccitazione, la voce perdeva la risonanza sovrannaturale e assumeva il duro accento umano degli altri presenti.
Era affascinato dagli abiti d’ogni genere, non per la loro bellezza ma per quello che pensava significassero. Portava jeans e magliette come Daniel, portava maglioni di lana grossa e scarpe sportive, giubbotti di pelle e occhiali a specchio rialzati sulla fronte. Portava abiti confezionati su misura e smoking, frac e cravatta bianca quando gli veniva la fantasia; una sera i suoi capelli erano tagliati corti e lo facevano sembrare un giovane allievo di Cambridge, e la sera dopo erano lunghi e ricciuti come la chioma di un angelo.
Sembrava che lui e Daniel non facessero altro che salire quattro rampe di scale non illuminate per andare a trovare un pittore, uno scultore o un fotografo, o per vedere qualche film, eccezionale, mai distribuito nei circuiti normali ma rivoluzionario. Passavano ore negli appartamenti privi d’acqua calda di donne giovanissime che suonavano musica rock e preparavano tè d’erbe, anche se Armand non lo beveva mai.
Uomini e donne, naturalmente, s’innamoravano di Armand, «così innocente, così appassionato, così brillante!» In effetti, il potere di seduzione di Armand era quasi incontrollabile. Ed era Daniel che doveva portarsi a letto quegli sventurati, se Armand riusciva a combinare per poi assistere da una poltrona, come un Cupido dagli occhi scuri e dal tenero sorriso d’approvazione. Era ardente e devastante, quella passione osservata, con Daniel che si lavorava l’altro corpo con un abbandono sempre più grande, eccitato dal duplice scopo di ogni gesto intimo. Eppure dopo si sentiva svuotato, e fissava Armand con freddo risentimento.