A New York frequentavano le inaugurazioni dei musei, andavano nei caffè e nei bar, avevano adottato un giovane ballerino e gli avevano pagato gli studi. Sedevano sui gradini delle case a Soho e nel Greenwich Village, a passare le ore in compagnia di chiunque fosse disposto a fermarsi con loro. Andavano a corsi serali di letteratura, filosofia, storia dell’arte e politica. Studiavano biologia, acquistavano microscopi, facevano raccolta di campioni. Studiavano libri di astronomia e piazzavano telescopi giganti sui tetti dei palazzi in cui vivevano al massimo pochi giorni o un mese. Andavano agli incontri di pugilato, ai concerti rock, agli spettacoli di Broadway.
Le invenzioni tecnologiche cominciavano a ossessionare Armand, una dopo l’altra. Prima c’erano i frullatori con i quali preparava intrugli spaventosi, composti unicamente sulla base dei colori degli ingredienti; quindi i forni a micro-onde, dove cuoceva scarafaggi e ratti. Gli inceneritori dei rifiuti lo incantavano: vi gettava asciugamani di carta e pacchetti interi di sigarette. Poi c’erano i telefoni. Faceva telefonate in tutto il pianeta e parlava per ore con i «mortali» in Australia e in India. Finalmente s’era lasciato conquistare dalla televisione, e l’appartamento s’era riempito di altoparlanti e di schermi balenanti.
Tutti i programmi in cui si vedeva il cielo azzurro lo affascinavano. Poi s’era sentito in dovere di assistere ai telegiornali, ai teleromanzi in prima serata, ai documentari, e a ogni film, indipendentemente dal valore intrinseco.
Poi un film in particolare aveva colpito la sua fantasia. Aveva visto e rivisto Blade Runner di Ridley Scott, affascinato da Rutger Hauer, il poderoso attore che, a capo degli androidi ribelli, affronta il suo creatore umano, lo bacia e gli sfonda il cranio. La scena strappava ad Armand una risata lenta e maliziosa; lo scricchiolio delle ossa, l’espressione nei gelidi occhi azzurri di Hauer.
«Ecco il tuo amico Lestat», aveva sussurrato una volta a Daniel. «Lestat avrebbe il… come si dice?… il fegato per farlo.»
Dopo Blade Runner era venuto I banditi del tempo, un film sciocco e divertente, una commedia britannica in cui cinque nani rubano una «Mappa della Creazione» per poter viaggiare attraverso le brecce nel tempo. Precipitano in un secolo dopo l’altro, rubando e azzuffandosi, insieme a un bambino, fino a che capitano tutti nella stanza del diavolo.
Una scena in particolare era la prediletta di Armand: i nani su un misero palcoscenico di Castelleone, mentre cantavano Me and My Shadow, perché Napoleone faceva impazzire Armand. Perdeva la compostezza sovrannaturale e diventava totalmente umano, e rideva fino a farsi venire le lacrime agli occhi.
Daniel doveva ammettere che aveva un suo fascino orribile, la scena di Me and My Shadow, con i nani che si rotolavano e si azzuffavano e alla fine rovinavano tutto mentre i musicisti settecenteschi non sapevano cosa pensare della canzone del secolo ventesimo. Napoleone restava stupito, poi s’entusiasmava. Un tocco di genialità comica, quella scena. Ma quante volte poteva rivederla un vivo? Armand non se ne stancava mai.
Dopo sei mesi aveva abbandonato i film per le telecamere, e girava i filmati da sé. Trascinava Daniel in giro per tutta New York, mentre intervistava la gente per le strade, la notte. Armand aveva registrazioni che lo mostravano mentre recitava poesie in italiano o in latino, o stava semplicemente a braccia conserte, una presenza bianca spesso sfuocata nella luce bronzea eternamente fioca.
Poi, chissà dove e chissà come, in un luogo che Daniel non conosceva, Armand aveva fatto una lunga registrazione di se stesso disteso nella bara durante il sonno diurno. Per Daniel era impossibile guardarla. Armand assisteva per ore e ore a quel film, e guardava i suoi capelli, tagliati al levar del sole, che crescevano lentamente sullo sfondo del cuscino di raso mentre giaceva immobile, con gli occhi chiusi.
Poi erano venuti i computer. Riempiva un dischetto dopo l’altro con i suoi scritti segreti. Prendeva in affitto altri appartamenti a Manhattan per sistemarvi i word processors e i videogames.
Alla fine si era dedicato agli aerei.
Daniel aveva sempre avuto la mania dei viaggi, era fuggito da Armand rifugiandosi in cento città, e lui e Armand avevano preso spesso l’aereo insieme. In questo non c’era niente di nuovo. Ma adesso era un’esplorazione: dovevano passare l’intera notte in volo. Non era insolito che volassero a Boston e poi a Washington e quindi a Chicago per tornare a New York. Armand osservava tutto, passeggeri e hostess; parlava con i piloti; si assestava comodamente sui sedili di prima classe e ascoltava il rombo dei motori. Era affascinato in particolare dai jet a due piani. Doveva provare avventure più lunghe e audaci, fino a Port-au-Prince o a San Francisco, o a Roma o Madrid o Lisbona… non aveva importanza, purché potesse atterrare prima dell’alba.
All’alba Armand scompariva. Daniel non sapeva mai dove dormiva. Ma allo spuntar del sole Daniel non si reggeva più. Per cinque anni Daniel non aveva mai visto mezzogiorno.
Spesso Armand arrivava nella stanza prima che Daniel si svegliasse. Il caffè era pronto, la musica suonava (Vivaldi oppure Honky-tonk piano, dato che li amava egualmente) e Armand camminava avanti e indietro, in attesa che Daniel si alzasse.
«Vieni, amore, stanotte andiamo al balletto. Voglio vedere Barišnikov. Poi andremo al Village. Ricordi il complesso jazz che mi è piaciuto tanto l’estate scorsa? È tornato. Vieni. Ho fame, amor mio. Dobbiamo andare.»
E se Daniel esitava, Armand lo spingeva sotto la doccia, lo insaponava e lo sciacquava, lo trascinava fuori, l’asciugava e poi gli radeva amorosamente la faccia come un barbiere all’antica, e alla fine lo vestiva dopo aver scelto gli indumenti adatti nel guardaroba di abiti sporchi e sciupati.
Daniel amava il contatto delle mani dure, lucenti e bianche che si muovevano sul suo corpo nudo come guanti di raso. E gli occhi scuri sembravano attirarlo fuori da se stesso, ah, un disorientamento delizioso, la certezza di venire trascinato lontano dalla realtà fisica, e finalmente le mani si stringevano delicatamente sulla sua gola, e i denti trafiggevano la pelle.
Chiudeva gli occhi e si sentiva riscaldare lentamente, e ardeva quando il sangue di Armand gli toccava le labbra. Udiva di nuovo i sospiri lontani, i pianti… erano le anime perdute? Sembrava esistesse una grande continuità luminosa, come se tutti i suoi sogni fossero improvvisamente connessi e importanti, ma come se tutto gli sfuggisse…
Una volta aveva afferrato Armand con tutta la sua forza e aveva cercato di lacerargli la pelle della gola. Armand era stato paziente, aveva lasciato che chiudesse la bocca sullo squarcio a lungo, sì… e poi l’aveva scostato gentilmente.
Daniel non era più in grado di decidere. Viveva solo in due stati alternati: infelicità ed estasi, unite dall’amore. Non sapeva mai quando gli veniva dato il sangue. Non sapeva mai se le cose gli sembravano, di conseguenza, diverse… i garofani che li fissavano dai vasi, i grattacieli orrendamente visibili come piante scaturite di notte da semi d’acciaio… o se stava semplicemente perdendo la ragione.
Poi era venuta la notte in cui Armand aveva detto d’essere pronto a entrare veramente in quel secolo perché ormai lo comprendeva abbastanza. Voleva una ricchezza «incalcolabile», voleva un’abitazione immensa, piena di tutte le cose che aveva imparato ad apprezzare. E yacht, aerei, automobili… milioni di dollari. Voleva comprare a Daniel tutto ciò che poteva desiderare.
«Come, milioni!» aveva riso Daniel. «Butti via i vestiti dopo averli indossati, prendi in affitto gli appartamenti e dimentichi dove sono. Sai cos’è un codice fiscale o un livello di reddito? Sono io quello che compra tutti i maledetti biglietti aerei. Milioni. Come faremo a guadagnare milioni? Ruba un’altra Maserati e falla finita, santo Dio!»