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«Daniel, tu sei un dono che mi è venuto da Louis», aveva detto teneramente Armand. «Cosa farei senza di te? Fraintendi tutto.» I suoi occhi erano grandi e infantili. «Voglio essere nel centro vitale delle cose, com’ero anni fa a Parigi nel Teatro dei Vampiri. Sicuramente ricorderai. Voglio essere una piaga nell’occhio del mondo.»

Daniel era rimasto abbagliato dalla rapidità con cui era accaduto tutto.

Era incominciato con il ritrovamento d’un tesoro nelle acque della Giamaica. Armand aveva noleggiato un’imbarcazione per mostrare a Daniel dove dovevano iniziare le operazioni di recupero. Pochi giorni dopo era stato scoperto un galeone spagnolo carico di lingotti d’oro e di preziose gemme. Poi c’era stato il ritrovamento di inestimabili statuette: altre due navi affondate erano state identificate in rapida successione. Una proprietà sudamericana acquistata a poco prezzo aveva rivelato una miniera di smeraldi dimenticata da moltissimo tempo.

Avevano acquistato una villa in Florida, yacht, motoscafi da corsa, un piccolo aereo a reazione squisitamente arredato.

Adesso dovevano essere vestiti come principi per tutte le occasioni. Armand sorvegliava personalmente quando venivano prese le misure per le camicie, gli abiti, le scarpe di Daniel. Sceglieva le stoffe per la serie interminabile di giacche sportive, pantaloni, vestaglie, foulard di seta. Naturalmente, per i climi più freddi Daniel doveva avere impermeabili foderati di visone, e smoking per Montecarlo, polsini ingemmati e persino un lungo mantello di nappa nera che Daniel, «con la sua figura da ventesimo secolo», poteva vestire con molto stile.

Al tramonto, quando Daniel si svegliava, i suoi abiti erano pronti, e guai a lui se cambiava qualcosa, dal fazzoletto ai calzini di seta nera. La cena attendeva nell’immensa sala da pranzo con le finestre aperte sulla piscina. Armand era già alla scrivania dello studio. C’era sempre da fare: mappe da consultare, altre ricchezze da conquistare.

«Ma come fai?» aveva chiesto Daniel mentre guardava Armand che prendeva appunti e scriveva istruzioni per i nuovi acquisti.

«Quando puoi leggere nelle menti degli uomini, puoi avere tutto ciò che vuoi», aveva risposto pazientemente Armand. Ah, quella voce sommessa e ragionevole, quel volto fanciullesco, aperto e quasi fiducioso, i capelli fulvi che ricadevano sempre sugli occhi, la figura che faceva pensare alla serenità umana, alla disinvoltura.

«Dai a me ciò che voglio», aveva detto Daniel.

«Ti sto dando tutto ciò che potresti chiedere.»

«Sì, ma non è ciò che ho chiesto, non è ciò che voglio!»

«Resta vivo, Daniel.» Un sussurro sommesso come un bacio. «Te lo dico sinceramente, la vita è preferibile alla morte.»

«Non voglio essere vivo, Armand. Voglio vivere in eterno, e allora potrò essere io a dirti se la vita è preferibile alla morte.»

Il fatto era che le ricchezze lo esasperavano, gli facevano sentire più che mai il peso della mortalità. Navigava sulla calda Corrente del Golfo con Armand, sotto il cielo notturno tempestato di stelle, e smaniava dal desiderio di possedere tutto questo per sempre. Con odio e amore guardava Armand che reggeva il timone. Armand l’avrebbe lasciato veramente morire?

Il gioco delle acquisizioni continuava.

Picasso, Degas, Van Gogh, erano soltanto alcuni dei quadri rubati che Armand recuperava senza spiegazioni e consegnava a Daniel perché li rivendesse o li restituisse dietro compenso. Naturalmente gli ultimi proprietari non osavano farsi avanti, se pure erano sopravvissuti alle visite notturne compiute da Armand nei sacrari dove avevano conservato i tesori rubati. A volte non esisteva un titolo inequivocabile sull’opera in questione. Alle aste rendevano milioni di dollari. Ma neppure questo era abbastanza.

Perle, rubini, smeraldi, tiare di diamanti: Armand li portava a Daniel. «Non preoccuparti, erano rubati, nessuno li richiederà.» E ai feroci trafficanti di droga della costa di Miami, Armand rubava di tutto, armi, valigie piene di denaro, persino imbarcazioni.

Daniel guardava i mucchi di banconote verdi mentre le segretarie le contavano e le fascettavano per spedirle ai conti numerati nelle banche europee.

Spesso Daniel vedeva Armand uscire solo, a caccia sulle tiepide acque del sud, un giovane dalla morbida camicia di seta nera e i pantaloni neri, alla guida di un motoscafo veloce a luci spente, con il vento che gli scompigliava i capelli lunghi. Un nemico esiziale. Chissà dove, là al largo, lontano dalla vista della terraferma, trova i contrabbandieri e colpisce… il pirata solitario, il signore della morte. Getta le vittime nell’abisso, con i capelli che ondeggiano per un momento, quando la luna può ancora illuminarli mentre guardano per l’ultima volta ciò che è stata la loro rovina? Quel ragazzo! E credevano d’essere loro, i malvagi…

«Mi lasci venire con te? Mi lasci vedere quando lo fai?»

«No.»

Finalmente Armand aveva ammassato un capitale sufficiente ed era pronto ad agire davvero.

Aveva ordinato a Daniel di fare acquisti, senza esitare e senza chiedere consigli: una flotta di navi da crociera, una catena di ristoranti e alberghi. Adesso avevano a disposizione quattro aerei privati. Armand aveva otto telefoni.

Poi era venuto il sogno finale: Night Island, la creazione personale di Armand con cinque abbaglianti piani tutti di vetro, pieni di teatri, ristoranti, negozi. Aveva disegnato i progetti per gli architetti che aveva scelto. Consegnava loro elenchi interminabili di materiali che voleva, le stoffe, le statue per le fontane e persino i fiori, gli alberi in vaso.

Ecco, Night Island. Dal tramonto all’alba i turisti la prendevano d’assalto, un’imbarcazione dopo l’altra li portava dai moli di Miami. La musica suonava in continuazione nei saloni, nelle piste da ballo. Gli ascensori di vetro non smettevano mai di salire verso il cielo, i laghetti, i fiumicelli e le cascate scintillavano fra bordure di fiori delicati.

Su Night Island si poteva comprare di tutto: diamanti, una Coca-Cola, libri, pianoforti, pappagalli, modelli firmati, bambole di porcellana. Le migliori cucine del mondo vi attendevano. Ogni sera i cinema proiettavano cinque film. Vi si trovavano tweed inglesi e cuoio spagnolo, sete indiane, tappeti cinesi, argenti, gelati e zucchero filato, porcellane finissime e scarpe italiane.

Oppure si poteva vivere accanto a tutto questo, in un lusso segreto, entrando e uscendo a volontà dal turbine.

«È tutto tuo, Daniel», diceva Armand, mentre si aggirava nelle stanze ariose della sua Villa dei Misteri che occupava tre piani, più le cantine vietate a Daniel, con le finestre aperte sul lontano, splendente panorama notturno di Miami, sulle nubi alte.

Era affascinante l’abile mescolanza del vecchio e del nuovo. Le porte degli ascensori si aprivano su grandi stanze rettangolari piene di arazzi medievali e di antichi candelieri; in ogni ambiente c’era un televisore gigantesco. Quadri rinascimentali riempivano l’appartamento di Daniel, dove i tappeti persiani coprivano il parquet. Il meglio della scuola veneta circondava Armand nel suo studio bianco, popolato di computer, intercom, monitor. I libri, le riviste e i giornali venivano da tutto il mondo.

«Questa è casa tua, Daniel.»

E così era stato, e a Daniel era piaciuto; doveva ammetterlo. E amava ancora di più la libertà, il potere e il lusso che l’accompagnavano dovunque andasse.

Era andato con Armand nell’interno delle giungle centroamericane, di notte, per vedere le rovine maya; avevano salito le pendici dell’Annapurna per ammirare la vetta lontana sotto la luce della luna. Avevano vagato insieme per le vie affollate di Tokyo, e a Bangkok e al Cairo e Damasco, a Lima e Rio e Katmandu. Di giorno, Daniel aveva sguazzato negli agi dei migliori alberghi locali; di notte aveva vagato senza paura con Armand al fianco.