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«Dio, donamelo!» Aveva fatto cadere il calice sul pavimento marmoreo della chiesa, era così goffo… ma, Dio! Il sangue!

Si sollevò a sedere, strinse a sé Armand, e trasse il sangue da lui, sorsata dopo sorsata. Erano caduti insieme sull’aiuola fiorita. Armand gli giaceva accanto. E lui gli teneva la bocca aperta sulla gola e il sangue era una sorgente inarrestabile.

«Vieni nella Villa dei Misteri», gli disse Louis che gli toccava la spalla. «Stiamo aspettando.» Le gemelle si abbracciavano, accarezzavano l’ima i lunghi capelli rossi dell’altra.

I ragazzi urlavano fuori dall’auditorium perché non c’erano più biglietti. Si sarebbero accampati nel parcheggio fino alla sera seguente.

«Abbiamo i biglietti?» chiese Daniel. «Armand, abbiamo i biglietti!»

Pericolo. Il ghiaccio. Proviene da qualcuno prigioniero sotto il ghiaccio!

Qualcosa lo colpì con forza. Stava volteggiando nell’aria.

«Dormi, amor mio.»

«Voglio tornare nel giardino, nella Villa.» Tentò di aprire gli occhi. Gli doleva il ventre. Era un dolore stranissimo e sembrava così lontano.

«Sai che lui è sepolto sotto il ghiaccio?»

«Dormi», disse Armand, avvolgendolo con la coperta. «E quando ti sveglierai, sarai come me. Morto.»

San Francisco. Sapeva di essere là ancora prima di aprire gli occhi. Era un sogno così orrendo, ed era lieto di averlo abbandonato: tenebra soffocante, e la corrente tumultuosa del mare! Ma il sole svaniva. Un sogno senza il senso della vista, soltanto il suono e il contatto dell’acqua. Un sogno di paure indicibili. Vi percepiva la presenza di una donna, indifesa, senza la lingua per urlare.

Lascia che il sogno svanisca.

C’era qualcosa nell’aria invernale che gli sfiorava il volto, una freschezza bianca che quasi poteva assaporare. San Francisco, naturalmente. Il freddo l’avvolgeva come un indumento attillato, ma dentro si sentiva deliziosamente caldo.

Immortale. Per sempre.

Aprì gli occhi. Armand l’aveva portato lì. Attraverso il buio viscido del sogno, aveva udito Armand dirgli di rimanere. Armand gli aveva detto che lì sarebbe stato al sicuro. Lì.

Le porte-finestre erano spalancate lungo la parete più lontana. E la stanza era opulenta, piena di oggetti, uno dei posti splendidi che Armand sapeva trovare e che amava tanto.

Guarda la tenda di merletto che sventola alla porta-finestra. Guarda le piume bianche arricciolate sul tappeto di Aubusson. Si alzò e varcò la soglia.

Un grande intrico di rami si ergeva tra lui e il cielo umido e lucente. Le fronte rigide del cipresso di Monterey. E laggiù, fra i rami, sullo sfondo di una tenebra vellutata, vide il grande arco ardente del ponte del Golden Gate. La nebbia si avvolgeva come denso fumo bianco intorno alle torri immense. Cercava di inghiottire i piloni, i cavi, e poi svaniva come se il ponte, con il suo flusso scintillante di traffico, la consumasse.

Lo spettacolo era troppo magnifico… e i contorni scuri delle colline lontane sotto il manto di luci calde. Ah, poter captare un solo, minuscolo dettaglio… i tetti bagnati che digradavano sotto di lui, i rami nodosi che si ergevano. Era come la pelle di un elefante, quella corteccia, quella epidermide vivente.

Immortale… per sempre.

Si passò le mani fra i capelli e fu pervaso da un fremito delicato. Quando ebbe tolto le mani, sentì le impronte delle dita sul cuoio capelluto. Il vento lo pungeva squisitamente. Ricordò qualcosa. Alzò le mani per cercare le zanne. Sì, erano splendide, lunghe e aguzze.

Qualcuno lo toccò. Si voltò così in fretta che per poco non perse l’equilibrio. Oh, era tutto inconcepibilmente diverso! Si fece forza, ma la vista di Armand gli mise addosso la voglia di piangere. Persino nell’ombra, gli occhi scuri di Armand erano colmi di una luce vibrante. E l’espressione del suo viso, così affettuosa. Cautamente, tese la mano e toccò le ciglia di Armand. Voleva sfiorare le linee finissime sulle labbra. Armand lo baciò. Daniel cominciò a tremare. La sensazione, la bocca fresca e serica, come un bacio della mente, la purezza elettrica di un pensiero!

«Rientra, mio discepolo», disse Armand. «Ci rimane meno di un’ora.»

«Ma gli altri…»

Armand aveva scoperto qualcosa di molto importante. Che cos’era? Avvenimenti terribili, incendi delle case delle congreghe. Eppure al momento nulla sembrava più importante del calore dentro di lui, e del fremito quando muoveva le membra.

«Prosperano e complottano», disse Armand. Stava parlando a voce alta? Doveva essere così. Ma la voce era così chiara! «Hanno paura della distruzione totale, ma San Francisco non è stata toccata. Alcuni dicono che l’ha fatto Lestat per attirare tutti. Altri affermano che è opera di Marius, o addirittura delle gemelle. O di Coloro-che-devono-essere-conservati, e che colpiscono con infinita potenza dal loro sacrario.»

Le gemelle! Daniel sentì di nuovo intorno a sé l’oscurità del sogno, un corpo di donna privo di lingua, il terrore. Oh, nulla ormai poteva fargli male. Né i sogni né i complotti. Era il figlio di Armand.

«Ma tutte queste cose possono attendere», disse gentilmente Armand. «Devi venire con me e fare ciò che ti dico. Dobbiamo portare a termine ciò che è stato incominciato.»

«Portare a termine?» Era già finito: lui era rinato.

Armand lo condusse in casa, al riparo dal vento. Riflessi del letto d’ottone nell’oscurità, d’un vaso di porcellana ornato di draghi dorati. Il pianoforte a gran coda con i tasti simili a denti scoperti in un ghigno. Sì, toccalo, tocca l’avorio, le nappe di velluto che pendono dal paralume…

La musica, da dove veniva la musica? Una tromba che suonava musica jazz, sommessamente, dolorosamente. Quel canto malinconico lo fermò: le note fluivano lentamente una nell’altra. Non voleva muoversi in quel momento. Voleva dire che comprendeva ciò che stava accadendo; ma assorbiva ogni suono spezzato.

Incominciò a ringraziare per la musica, ma la sua voce era inspiegabilmente strana… più acuta e tuttavia più risonante. Persino la sensazione della sua lingua e là fuori la nebbia, guardala… la indicò, la nebbia che avvolgeva la terrazza e divorava la notte.

Armand era paziente. Armand comprendeva. Armand lo condusse lentamente attraverso la stanza buia.

«Ti amo», disse Daniel.

«Ne sei certo?» chiese Armand.

Quelle parole lo fecero ridere.

Erano arrivati in un lungo corridoio. Una scala scendeva nell’ombra. Una balaustra lucida. Armand lo esortò a proseguire. Daniel avrebbe voluto guardare la passatoia, una lunga catena di medaglioni intessuti di gigli: ma Armand l’aveva condotto in una stanza illuminata vivamente.

Trattenne il respiro in quell’illuminazione che splendeva sopra i divani e le poltrone di pelle. Ah, ma il quadro alla parete!

Erano così vivide, le figure dipinte, creature informi che in realtà erano grandi chiazze di colore giallo e rosso. Tutto ciò che sembrava vivo era vivo: quella era una possibilità. Dipingevi esseri privi di braccia che sguazzavano nel colore accecante, e dovevano esistere così per sempre. Potevano vederti con tutti quei minuscoli occhi sparpagliati? Oppure vedevano soltanto il paradiso e l’inferno del loro regno splendente, ancorati ai ganci della parete da un pezzo di filo metallico contorto?

Avrebbe voluto piangere a quel pensiero, piangere del gemito gutturale della tromba… eppure non piangeva. Aveva captato un aroma intenso, seducente. Dio, che cos’è? Tutto il suo corpo parve indurirsi inesplicabilmente. E all’improvviso vide una ragazzina.

Era seduta su una seggioletta dorata e lo fissava, con le caviglie incrociate, i folti capelli bruni che incorniciavano la faccia bianca. Gli abiti succinti erano sporchi. Una piccola fuggitiva con i jeans laceri e la maglietta lurida. Era un’immagine perfetta, con una spruzzata di lentiggini sul naso e lo zaino bisunto ai piedi. Ma la forma delle braccia, il modellato delle gambe! E gli occhi, gli occhi castani! Rideva sommessamente, ma era una risata folle, priva di allegria. Aveva un suono sinistro. Che strano! Daniel si accorse che le aveva sollevato il volto fra le mani, e lei lo guardava sorridendo, e un lieve rossore scarlatto si diffondeva sulle guance calde.