Выбрать главу

Sangue. Quello era l’aroma. Le dita gli scottavano. Ah, riusciva addirittura a vedere i vasi sanguigni sotto la pelle! E il battito del cuore, poteva udirlo. Diventava più forte, era un… un suono umido. Indietreggiò.

«Dio, portala via!» gridò.

«Prendila», bisbigliò Armand. «E fallo subito.»

5. KHAYMAN, MIO KHAYMAN

Nessuno ascolta, Ora puoi cantare il canto dell’io, Come canta l’uccello, non per il territorio O il dominio, Ma per l’auto-esaltazione. Fai in modo che qualcosa Venga dal nulla
Stan Rice
da «Texas Suite»
Body of Work (1983)

Fino a quella notte, quella notte spaventosa, aveva scherzato a proposito di se stesso. Non sapeva chi era, non sapeva da dove era venuto, sapeva solo che cosa gli piaceva.

E ciò che gli piaceva era intorno a lui… i portafiori negli angoli, i grandi palazzi di acciaio e di vetro pieni della luce opalescente della sera, gli alberi, naturalmente, e l’erba sotto i piedi. E le cose acquistate di plastica lucida e di metallo, giocattoli, computer, telefoni… non aveva importanza. Gli piaceva comprenderli, dominarli, e poi schiacciarli, comprimerli in minuscole sfere multicolori che poteva lanciare nell’aria o scagliare attraverso le vetrate quando non c’era nessuno.

Gli piaceva la musica per pianoforte, i film e le poesie che trovava nei libri.

Gli piacevano anche le automobili che, come le lampade, bruciavano il petrolio estratto dalla terra. E i grandi aerei a reazione che volavano sopra le nuvole sfruttando lo stesso principio scientifico.

Si fermava sempre ad ascoltare la gente che rideva e parlava lassù in alto, quando uno degli aerei gli passava sopra la testa. Guidare era un piacere straordinario. A bordo d’una Mercedes-Benz argentata, avanzava di corsa sulle strade vuote e levigate da Roma a Firenze a Venezia, nel cuore della notte. Gli piaceva anche la televisione, l’intero processo elettronico con i minuscoli bit di luce. Com’era rasserenante avere la compagnia della televisione, l’intimità con tante facce abilmente dipinte che ti parlavano in toni amichevoli dallo schermo luminoso.

Gli piaceva anche il rock and roll. Gli piaceva tutta la musica. Gli piaceva il vampiro Lestat che cantava Requiem per la marchesa. Non prestava molta attenzione alle parole. Era una musica malinconica, con il sottofondo tenebroso dei tamburi e dei cembali. Gli metteva addosso la voglia di ballare.

Gli piacevano le gigantesche macchine gialle che scavavano la terra a notte alta nelle grandi città, con gli uomini in uniforme che brulicavano loro intorno; gli piacevano gli autobus londinesi a due piani, e la gente, i mortali ingegnosi di ogni luogo della terra… gli piacevano anche quelli, ovviamente.

Gli piaceva passeggiare per Damasco, la sera, e vedere nei lampi improvvisi dei ricordi sconnessi la città degli antichi. Romani, greci, persiani, egiziani per quelle vie.

Gli piacevano le biblioteche dove nei grandi volumi che emanavano un buon odore poteva trovare le fotografie degli antichi monumenti. Anche lui fotografava le città nuove e a volte riusciva a imprimere in quelle foto le immagini che provenivano dai suoi pensieri. Per esempio, nella sua fotografia di Roma c’erano romani in tuniche e sandali, con sovraimpresse versioni moderne con uomini dagli abiti sgraziati.

Oh, sì, aveva sempre intorno molte cose che gli piacevano… la musica per violino di Bartók, le bambine vestite di bianco che uscivano a mezzanotte dalla chiesa dopo aver cantato alla messa di Natale.

Gli piaceva anche il sangue delle vittime, naturalmente. Era superfluo dirlo. Questa non era una delle sue battute scherzose. Per lui non era divertente. Seguiva la preda in silenzio: non voleva conoscere le sue vittime. Bastava che un mortale gli parlasse perché si sentisse smontato. Non era corretto, secondo lui, parlare a quegli esseri dolci dagli occhi teneri e poi ingozzarsi del loro sangue, stritolargli le ossa e leccare il midollo, e ridurre le loro membra a una poltiglia gocciolante. Ed era così che banchettava, adesso: con violenza. Cercava il sangue, lo voleva, e il desiderio lo travolgeva con una smaniosa purezza, ben diversa dalla sete. Avrebbe banchettato con tre o quattro mortali per notte.

Tuttavia era sicuro, assolutamente sicuro di essere stato umano, un tempo. Aveva camminato sotto il sole nelle ore più calde del giorno, sì, l’aveva fatto, sebbene adesso gli fosse impossibile. Si vedeva seduto a un semplice tavolo di legno, mentre affettava una pesca matura con un coltellino. Era bello, il frutto che gli stava davanti. Ne conosceva il sapore. Conosceva il sapore del pane e della birra. Vedeva il sole splendere sull’opaca sabbia gialla che si estendeva là fuori per miglia e miglia. «Sdraiati a riposare nelle ore calde del giorno», gli aveva detto qualcuno una volta. Era accaduto l’ultimo giorno in cui era stato vivo? Riposa, sì, perché il re e la regina convocheranno la corte e qualcosa, qualcosa di terribile…

Ma non riusciva a ricordare esattamente.

No, per la verità lo sapeva… cioè, fino a quella notte. Quella notte…

Non aveva ricordato neppure quando aveva ascoltato il vampiro Lestat. Quel personaggio un po’ l’incuriosiva… un cantante rock che si spacciava per un bevitore di sangue. Aveva un aspetto disumano: ma forse era l’effetto della televisione, no? Molti umani, nel mondo vertiginoso della musica rock, sembravano ultraterreni. E c’era un’emozione così umana nella voce del vampiro Lestat.

Non era soltanto emozione: era un’ambizione umana molto particolare. Il vampiro Lestat voleva essere eroico. Quando cantava, diceva: «Riconoscetemi un significato! Io sono il simbolo del male: e se sono un vero simbolo, allora faccio il bene».

Affascinante. Solo un essere umano poteva pensare un paradosso come quello. E lui lo sapeva, perché era stato umano, naturalmente.

Ora possedeva una comprensione sovrannaturale delle cose. Era vero. Gli umani non potevano guardare le macchine e comprenderne i principi, come poteva fare lui. E il modo in cui tutto gli era «familiare»… anche questo poteva avere a che fare con i suoi poteri sovrumani. Oh, non c’era nulla che lo sorprendesse veramente. Né la fisica quantistica, né le teorie sull’evoluzione, né i quadri di Picasso, né i procedimenti con i quali i bambini venivano vaccinati per proteggerli dalle malattie. No, era come se fosse stato a conoscenza delle cose molto tempo prima di quanto ricordasse d’essere lì. Molto tempo prima che potesse dire: «Penso, dunque sono».

Ma a parte tutto ciò, aveva ancora una prospettiva umana. Nessuno poteva negarlo. Sentiva la sofferenza umana con una perfezione strana e dolorosa. Sapeva cosa significava amare ed essere soli, ah, sì, lo sapeva meglio di ogni altra cosa, e lo sentiva più acutamente quando ascoltava le canzoni del vampiro Lestat. Perciò non prestava attenzione alle parole.

E c’era un’altra cosa: più sangue beveva, e più assumeva un aspetto umano.

Quando era apparso per la prima volta in quel tempo, non aveva affatto un aspetto umano. Era uno scheletro lurido, camminava lungo la strada che portava ad Atene, con le ossa avvolte in una compatta rete gommosa di vene, il tutto racchiuso in uno strato di pelle bianca e indurita. Aveva terrorizzato la gente. Erano fuggiti tutti, lanciando le automobili a tutta velocità. Ma aveva letto nelle loro menti, aveva visto se stesso come loro lo vedevano: aveva capito e, naturalmente, si era rattristato.