Ad Atene s’era procurato i guanti, un ampio indumento di lana con i bottoni di plastica, e quelle buffe scarpe moderne che coprivano completamente i piedi. S’era avvolto gli stracci intorno al viso, lasciando un varco solo per gli occhi e la bocca. Aveva nascosto i luridi capelli neri con una lobbia di feltro grigio.
La gente lo guardava ancora in modo strano ma non fuggiva urlando. Quando veniva il buio, si aggirava tra la folla in piazza. Omonia e nessuno gli badava. Com’era piacevole il trambusto moderno della vecchia città che anticamente era stata altrettanto vitale, quando da tutto il mondo accorrevano gli studiosi della filosofìa e dell’arte. Poteva alzare gli occhi verso l’Acropoli e vedere il Partenone com’era stato allora, la perfetta dimora della dea, non la rovina che era adesso.
I greci, come sempre, erano splendidi, gentili e fiduciosi, anche se ora avevano i capelli e la carnagione più scuri, a causa della commistione con il sangue turco. E non facevano caso al suo strano abbigliamento. Quando parlava con la sua voce sommessa e suadente, imitando alla perfezione la lingua a parte qualche errore apparentemente buffo, si mostravano entusiasti. E aveva anche notato che si andava lentamente rimpolpando. La sua carne era dura come la pietra, tuttavia cambiava. Finalmente una notte, quando aveva tolto gli stracci, aveva visto i contorni di una faccia umana. Dunque era così che appariva, no?
Grandi occhi neri con le minuscole grinze agli angoli e le palpebre lisce. La bocca era garbata, sorridente. Il naso era ben disegnato e non gli dispiaceva. Le sopracciglia… gli piacevano particolarmente perché erano nere e diritte, non spezzate o irsute, e abbastanza alte sopra gli occhi per dargli un’espressione aperta, un’espressione di velato stupore che poteva ispirare fiducia. Sì, un bel volto maschile.
Da allora era andato in giro a volto scoperto, aveva indossato camicie e pantaloni moderni. Ma doveva tenersi nell’ombra. Era troppo levigato e troppo bianco.
Quando glielo chiedevano, diceva che il suo nome era Khayman. Ma non sapeva dove l’aveva preso. E una volta, più tardi, era stato chiamato Benjamin… sapeva anche questo. C’erano altri nomi… Ma quando? Khayman. Era il primo nome, il nome segreto, e non l’aveva mai dimenticato. Sapeva disegnare i due minuscoli segni che significavano Khayman, ma non aveva idea da dove provenissero quei simboli.
La sua forza lo sbalordiva forse più d’ogni altra cosa. Era in grado di sfondare un muro, di sollevare un’automobile e di scagliarla lontano. Tuttavia era stranamente fragile e leggero. Se si piantava un coltello lungo e sottile nella mano, provava una strana sensazione. E c’era sangue dappertutto. Poi le ferite si chiudevano e doveva riaprirle per estrarre il coltello.
In quanto alla leggerezza, ebbene, non c’era nulla che non potesse scalare. Era come se la gravita non avesse potere su di lui, quando decideva di sfidarla. E una notte, dopo essere salito in cima a un palazzo altissimo al centro della città, aveva spiccato il volo ed era disceso dolcemente sulla via sottostante.
Era magnifico. Sapeva di poter coprire grandi distanze, purché osasse. Sicuramente una volta l’aveva fatto, s’era avventurato fra le nuvole. Ma forse… forse no.
Possedeva anche altri poteri. Ogni sera, al risveglio, si sorprendeva ad ascoltare voci provenienti da tutto il mondo. Giaceva nell’oscurità, avvolto nei suoni. Sentiva parlare in greco, inglese, romeno, indostano. Sentiva risate, grida di dolore. E se restava immobile, sentiva i pensieri della gente… una corrente sotterranea, confusa, straripante di folli esagerazioni che lo spaventavano. Non sapeva da dove venissero le voci, né perché una di esse sommergesse l’altra. Era come se fosse Dio e ascoltasse le preghiere.
E ogni tanto, distinte da quelle umane, gli giungevano anche voci immortali. C’erano altri come lui, là fuori, e pensavano e provavano sensazioni e lanciavano moniti. Le loro grida possenti erano lontane, tuttavia riusciva facilmente a separarle da quelle della massa umana.
Ma quella ricettività lo faceva soffrire. Gli riportava alla mente il ricordo di essere rinchiuso in un luogo tenebroso, di avere soltanto quelle voci a tenergli compagnia per anni, anni e anni. Panico. E questo non voleva ricordarlo. C’erano cose che non voleva ricordare. Come essere bruciato o imprigionato. Come ricordare tutto e piangere, un terribile pianto d’angoscia.
Sì, gli erano accadute cose atroci. Tutto era avvenuto sempre in quella terra, con altri nomi e in altri tempi. Ma sempre con la stessa indole gentile e ottimista, con lo stesso amore per le cose. Era un’anima migrante? No, aveva sempre avuto quel corpo. Perciò era così leggero e così forte.
Inevitabilmente, escludeva le voci. Anzi, ricordava un’antica ammonizione: se non impari a escludere le voci, ti faranno impazzire. Ma adesso era semplice. Le acquietava alzandosi, aprendo gli occhi. Anzi, avrebbe dovuto compiere uno sforzo per sentirle. Continuavano e continuavano e diventavano un rumore fastidioso.
Lo attendeva lo splendore del momento. Ed era facile annegare i pensieri dei mortali vicini. Poteva cantare, per esempio, o fissare l’attenzione su una cosa qualunque. Il silenzio benedetto. A Roma c’erano distrazioni ovunque. Amava le vecchie case romane dipinte d’ocra e terra di Siena bruciata e verde scuro. Amava le strette vie di pietra. Sapeva guidare a tutta velocità una macchina per i viali pieni di mortali, o aggirarsi per via Veneto fino a quando trovava una donna di cui innamorarsi, per un po’.
E amava la gente ingegnosa di quel tempo. Erano sempre umani, ma sapevano tante cose. Un potente veniva assassinato in India, e nel giro di un’ora tutto il mondo poteva dolersene. Disastri, invenzioni e miracoli medici d’ogni genere pesavano sulle menti dell’umano comune. La gente giocava con la realtà e la fantasia. Le cameriere scrivevano, durante la notte, romanzi che potevano renderle famose. Gli operai s’innamoravano delle regine nude dello schermo nelle videocassette prese a nolo. I ricchi portavano gioielli di carta, i poveri acquistavano minuscoli diamanti. E le principesse giravano per gli Champs Elysées vestite di stracci accuratamente stinti.
Ah, desiderava essere umano. Dopotutto, che cos’era? Com’erano gli altri… quelli di cui escludeva le voci? Non la Prima Stirpe, ne era certo. Quelli della Prima Stirpe non potevano contattarsi tra loro per mezzo esclusivo della mente. Ma cosa diavolo era la Prima Stirpe? Non riusciva a ricordare. Un senso di panico lo assaliva. Non pensava a queste cose. Scriveva poesie su un quaderno… erano moderne e semplici, eppure sapeva che erano nello stile più antico che avesse conosciuto.
Si spostava di continuo in Europa e in Asia Minore, a volte a piedi, a volte librandosi nell’aria e portandosi con la volontà in un determinato luogo. Incantava coloro che avrebbero potuto interferire, e di giorno dormiva in nascondigli bui. Dopotutto, il sole non lo bruciava più. Ma non riusciva a fare nulla nella luce del sole. I suoi occhi incominciavano a chiudersi quando vedeva spuntare la prima luce mattutina. Voci… tutte quelle voci, altri bevitori di sangue che gridavano d’angoscia… e poi nulla. E si svegliava al tramonto, ansioso di leggere l’antica scritta delle stelle.
Finalmente era diventato audace nel volo. Alla periferia di Istanbul era salito in alto sopra i tetti, come un pallone. Aveva turbinato ridendo; poi aveva deciso di recarsi a Vienna, che aveva raggiunto prima dell’alba. Nessuno l’aveva visto. Si muoveva troppo velocemente perché lo vedessero. E comunque, non faceva quegli esperimenti davanti a occhi curiosi.