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Aveva anche un altro potere molto interessante: poteva viaggiare senza il proprio corpo. Per la verità, non era esatto dire che poteva viaggiare. Bisognava dire che poteva inviare la sua vista a guardare cose lontane, se è possibile esprimersi così. Restava immobile e pensava, per esempio, a un posto distante che gli sarebbe piaciuto vedere e, all’improvviso, era là. C’erano anche alcuni mortali capaci di farlo, nei sogni o nello stato di veglia, con una grande concentrazione. Ogni tanto passava accanto ai loro corpi addormentati e capiva che le loro anime erano altrove. Ma le anime, non riusciva mai a vederle. Non poteva vedere i fantasmi o altre specie di spiriti…

Ma sapeva che c’erano. Dovevano esserci.

E tornava a lui il ricordo che una volta, quand’era mortale, aveva bevuto nel tempio una pozione potentissima offerta dai sacerdoti, e aveva viaggiato nello stesso modo, fuori dal proprio corpo, nel firmamento. I sacerdoti l’avevano fatto ritornare. Lui non avrebbe voluto. Era stato assieme ai morti che amava. Ma aveva compreso che doveva tornare. Era ciò che ci si aspettava da lui.

A quei tempi era un essere umano. Sì, indubbiamente. Ricordava la sensazione del sudore sul petto nudo quando si era sdraiato nella stanza polverosa e gli avevano portato la pozione. Aveva avuto paura. Ma era accaduto a tutti.

Forse era meglio essere ciò che era adesso, e poter volare con l’anima e con il corpo.

Ma non sapere, non ricordare veramente, non comprendere come poteva fare quelle cose e perché viveva del sangue degli umani… tutto ciò causava un intenso dolore.

A Parigi era andato a vedere i film dei vampiri e s’era interrogato su ciò che sembrava vero e ciò che era falso. Tutto era familiare, anche se in gran parte era stupido. Il vampiro Lestat aveva preso il suo costume dai vecchi film in bianco e nero. Quasi tutte le «creature della notte» vestivano allo stesso modo, con gli stessi indumenti… il mantello nero, la camicia bianca inamidata, la classica giacca nera con le code e i pantaloni neri.

Erano assurdità, certo; tuttavia gli dava conforto. Dopotutto, erano bevitori di sangue, esseri che parlavano gentilmente, come se si esprimessero in poesia, e tuttavia uccidevano continuamente i mortali.

Comprava i fumetti dei vampiri e ritagliava certi disegni di splendidi bevitori di sangue, come il vampiro Lestat. Forse anche lui avrebbe dovuto provare quel bel costume; anche quello sarebbe stato un conforto. Gli avrebbe dato la sensazione di essere parte di qualcosa, anche se quel qualcosa in realtà non esisteva.

A Londra, dopo mezzanotte, in un negozio buio, aveva trovato il suo costume da vampiro. Giacca, pantaloni e lucide scarpe di vernice; una camicia inamidata e una cravatta di seta bianca. E poi, oh, il mantello nero, magnifico, con la fodera di raso bianco, che quasi toccava il pavimento.

S’era girato e rigirato davanti agli specchi. Il vampiro Lestat l’avrebbe invidiato: e pensare che lui, Khayman, non era un umano che fingeva: era autentico. Per la prima volta s’era spazzolato i folti capelli neri. Aveva trovato profumi e unguenti nelle vetrine, e si era preparato adeguatamente per una serata grandiosa. Aveva trovato anelli e gemelli d’oro.

Adesso era magnifico, come lo era stato molto tempo prima, abbigliato di altri indumenti. E subito, per le vie di Londra, la gente l’aveva adorato! Aveva fatto bene. Lo seguivano mentre camminava e lui sorrideva e s’inchinava, e ogni tanto strizzava l’occhio a qualcuno. Anche quando uccideva, era perfetto. La vittima lo fissava come se fosse una visione, come se capisse. Lui si chinava, come faceva il vampiro Lestat nei video alla televisione, e dapprima beveva gentilmente dalla gola, poi dilaniava la vittima.

Naturalmente era tutto un gioco che aveva qualcosa di spaventosamente banale. Non aveva nulla a che vedere con il fatto d’essere un bevitore di sangue; quello era il segreto tenebroso, nulla aveva a che vedere con le cose ricordate vagamente, ogni tanto, e scacciate dal pensiero. Tuttavia era piacevole, per il momento, essere «qualcuno» e «qualcosa».

Sì, il momento, il momento era splendido. E non aveva altro. Dopotutto avrebbe dimenticato anche quel tempo, no? Le notti così piene di dettagli squisiti si sarebbero dileguate; e in un futuro ancora più complesso e impegnativo si sarebbe scatenato di nuovo ricordando soltanto il suo nome.

Finalmente era tornato a casa, ad Atene.

Vagava nel museo, la notte, con un mozzicone di candela, ed esaminava le vecchie lapidi con le figure scolpite che lo facevano piangere. La donna morta, seduta (i morti sono sempre seduti), tende le braccia verso il bambino che ha lasciato e che il marito tiene fra le braccia. I nomi gli tornavano alla mente, come se i pipistrelli gli mormorassero all’orecchio. Vai in Egitto: allora ricorderai. Ma non voleva; era troppo presto per cercare la follia e l’oblio. Ad Atene era al sicuro, vagava nel vecchio cimitero ai piedi dell’Acropoli, da cui avevano tolto tutte le stele. Non badava al traffico che passava rombando. Era una terra bellissima. E apparteneva ancora ai morti.

Aveva acquisito un guardaroba da vampiro. Aveva comprato persino una bara, ma non gli piaceva entrarvi. Innanzitutto la bara non aveva la forma di una persona e non aveva un volto, né scritte per guidare l’anima del morto. Non andava bene. Sembrava piuttosto uno scrigno per gioielli. Ma poiché era un vampiro, ebbene, riteneva di doverla avere, ed era una cosa divertente. I mortali che entravano nell’appartamento se ne entusiasmavano. Offriva loro vino rosso-sangue in bicchieri di cristallo. Recitava la Ballata del vecchio marinaio e cantava canzoni in lingue stranissime. A volte leggeva le sue poesie. Erano umani di buon cuore. E la bara serviva loro per sedersi, in un appartamento dove non c’era quasi nient’altro.

Ma a poco a poco le canzoni del cantante rock americano, il vampiro Lestat, avevano cominciato a turbarlo. Non erano più divertenti. Non lo erano più neppure i vecchi film. Il vampiro Lestat lo infastidiva veramente. Quale bevitore di sangue avrebbe sognato atti di purezza e di coraggio. Le canzoni avevano toni così tragici.

Bevitore di sangue… A volte, quando si svegliava sul pavimento dell’appartamento afoso mentre l’ultima luce del giorno svaniva oltre le finestre, si sentiva abbandonare da un sogno opprimente, popolato di esseri che sospiravano e gemevano per la sofferenza. Aveva seguito in un orrendo paesaggio notturno le orme di due belle donne dai capelli rossi che subivano ingiustizie indicibili, due gemelle che cercava più volte di raggiungere. Dopo che le avevano tagliato la lingua, la donna dai capelli rossi che vedeva nel sogno strappava la lingua dalle mani dei soldati e la mangiava, il suo coraggio li sbigottiva…

Ah, non guardare quelle cose!

Il viso gli doleva, come se fosse stato a lungo contratto, come se avesse pianto o come se fosse tormentato dall’ansia. Si rilassava lentamente. Guardava la lampada. I fiori gialli. Niente. Soltanto Atene, con chilometri e chilometri di edifici di stucco, e il grande tempio di Atena sull’Acropoli che campeggia su tutto, nonostante l’aria satura di fumo. Sera. Il movimento divino mentre migliaia di individui in abito da lavoro scendevano le scale mobili della metropolitana. In piazza Syntagma, i pigri bevitori di retsina e di uzo, oppressi dal caldo della prima sera. E le edicole che vendevano riviste e giornali di tutti i paesi.

Non ascoltava più la musica del vampiro Lestat. Quando la suonavano, lasciava le sale da ballo americane. Si allontanava dagli studenti che portavano i piccoli mangianastri agganciati alla cintura.

Poi una notte nel cuore della Plaka, con le luci sgargianti e le taverne rumorose, vide altri bevitori di sangue che si muovevano in fretta tra la folla. Il suo cuore si fermò. La solitudine e la paura lo sopraffecero. Non riusciva a muoversi e a parlare. Poi li seguì per le vie ripide, dentro e fuori da una sala da ballo dopo l’altra, dove strepitava la musica elettronica. Li studiava attentamente mentre proseguivano fra la ressa dei turisti, ignari della loro presenza.