Due maschi e una femmina dai succinti indumenti di seta nera; i piedi della donna erano calzati da scomode scarpe dal tacco alto. Occhiali da sole argentati coprivano gli occhi; bisbigliavano tra loro e prorompevano in risate improvvise. Carichi di gioielli e di profumi, ostentavano la carnagione e i capelli lucenti e sovrannaturali.
Ma quei dettagli superficiali non contavano: erano diversi da lui. Non erano altrettanto duri e bianchi, tanto per cominciare. Anzi, erano fatti di morbidi tessuti umani, come se fossero ancora cadaveri animati. Straordinariamente rosei e deboli. E come avevano bisogno del sangue delle vittime. In quel momento soffrivano le torture della sete: e sicuramente era il loro destino di ogni notte. Perché il sangue doveva operare senza fine in quei teneri tessuti umani; operava non soltanto per animarli ma anche per trasformarli lentamente in qualcosa d’altro.
In quanto a lui, era fatto interamente di quel qualcosa d’altro: non gli erano rimasti tessuti umani morbidi. Sebbene bramasse il sangue, non gli era necessario per quella conversione. Piuttosto, si rendeva conto che il sangue lo ristorava, accresceva i suoi poteri telepatici, la sua capacità di volare o di viaggiare al di fuori del corpo, o la sua forza prodigiosa. Ah, lo comprendeva! Era ormai un ospite quasi perfetto per il potere senza nome che operava in tutti loro.
Sì, era esattamente così. E quelli erano più giovani, ecco tutto. Avevano appena incominciato il viaggio verso la vera immortalità vampiresca. Non lo ricordava? Ecco, non esattamente: ma lo sapeva, sapeva che erano novellini e avevano iniziato il cammino da non più di cento o duecento anni. Era il periodo pericoloso, quando impazzivi o quando gli altri ti catturavano e ti rinchiudevano o ti bruciavano. Molti non sopravvivevano a quegli anni. Quanto tempo era passato per lui, che apparteneva alla Prima Stirpe? Era quasi inconcepibile. Si fermò accanto al muro dipinto d’un giardino, alzò la mano per appoggiarla a un tronco nodoso e lasciò che le fresche foglie verdi gli toccassero il volto. All’improvviso si sentì inondato da una tristezza più terribile della paura. Sentì qualcuno piangere… non accanto a lui, ma nella sua mente. Chi era? Basta!
Bene, non avrebbe fatto alcun male a quelle tenere creature. No, voleva soltanto conoscerle, abbracciarle. Dopotutto siamo della stessa famiglia, bevitori di sangue, voi e io!
Ma quando si avvicinò e irradiò un saluto silenzioso ma esuberante, si voltarono a guardarlo con aperto terrore. Fuggirono. Discesero un intrico buio di vicoli, lontano dalle luci della Plaka, e nulla di ciò che poteva dire o fare sarebbe bastato a fermarli.
Rimase rigido e silenzioso, colpito da una sofferenza acuta che non aveva mai conosciuto. Poi accadde una cosa strana e, terribile. Li seguì fino a che li vide di nuovo. S’infuriò. Maledetti! Vi punirò perché mi fate soffrire! All’improvviso provò una strana sensazione alla fronte, uno spasimo freddo dietro l’osso. Una forza parve scaturire da lui come una lingua invisibile. Immediatamente trapassò la femmina, rimasta più indietro degli altri: e il suo corpo esplose in fiamme.
Era stupefatto. Tuttavia si rendeva conto di ciò che era accaduto. L’aveva trafitta con una forza concentrata che aveva appiccato il fuoco al potente sangue combustibile che avevano in comune: e subito il fuoco era dilagato nel circuito delle vene. Aveva invaso il midollo delle ossa e aveva fatto esplodere il corpo. In pochi secondi, la donna non esisteva più.
Per gli dèi! Era stato lui a farlo! Angosciato e atterrito, indugiò a osservare gli indumenti vuoti e incombusti, e tuttavia anneriti e chiazzati di grasso. Sulle pietre erano rimasti pochi capelli, che bruciavano in una spira di fumo.
Forse era stato un errore. Ma no, sapeva d’essere stato lui. S’era accorto di farlo. E lei aveva avuto tanta paura!
Ammutolito per l’orrore, si avviò per tornare a casa. Sapeva che non aveva mai usato prima quel potere, non aveva neppure saputo di possederlo. L’aveva acquisito soltanto ora, dopo i secoli in cui il sangue aveva operato, aveva inaridito le cellule, le aveva rese sottili e bianche e forti come le cellette d’un nido di vespe?
Solo nell’appartamento, con le candele e l’incenso che ardevano per confortarlo, si trafisse di nuovo con il coltello e guardò sgorgare il sangue. Era denso e caldo, e formava una pozza sul tavolo davanti a lui, brillava come se fosse vivo nella luce della lampada. E lo era!
Nello specchio, studiò la radiosità che era tornata a lui dopo tante settimane di caccia impegnata. Una lieve sfumatura giallognola sulle guance, una traccia di rosa sulle labbra. Ma non aveva importanza: era come la pelle abbandonata da un serpente sulle rocce… morto e leggero e arido, se non per il pompare continuo di quel sangue. Il sangue vile. E il suo cervello, ah, il suo cervello, che aspetto aveva adesso? Era trasparente come se fosse di cristallo, con il sangue che fluiva nei compartimenti minuscoli? Ed era lì che viveva il potere dalla lingua invisibile?
Uscì di nuovo e mise alla prova quella nuova forza contro gli animali… contro i gatti per i quali provava un odio irragionevole poiché gli sembravano creature malefiche, e contro i topi, che tutti gli uomini disprezzano. Non era la stessa cosa. Uccideva quegli esseri con l’energia guizzante, ma non prendevano fuoco. Il cervello e il cuore subivano una lacerazione fatale, ma il sangue naturale nelle loro vene non era combustibile. Perciò non bruciavano.
Questo l’affascinava in modo freddo, ossessivo. «Sono uno straordinario soggetto per uno studio», mormorò, con gli occhi colmi all’improvviso di lacrime sgradite. Mantelli, cravatte bianche, film di vampiri, cosa significava per lui? Chi diavolo era? Lo zimbello degli dèi che percorreva la strada da un momento all’altro, attraverso l’eternità? Quando vide un grande manifesto del vampiro Lestat che lo irrideva dalla vetrina di un negozio di televisori, si voltò e con un guizzo d’energia infranse il cristallo.
Ah, magnifico, magnifico. Datemi le foreste, le stelle. Quella notte andò a Delfì, ascendendo silenziosamente sopra la terra buia. Discese sull’erba umida e andò a camminare dove un tempo sedeva l’oracolo, nelle rovine della casa del dio.
Ma non intendeva lasciare Atene. Doveva trovare i due bevitori di sangue e dir loro quanto era dispiaciuto, e promettere che mai, mai avrebbe usato il potere contro di loro. Dovevano parlargli! Dovevano essere con lui…! Sì!
La notte seguente, dopo il risveglio, ascoltò per ritrovarli. E un’ora dopo li sentì levarsi dalle loro tombe. Avevano il covo in una casa nella Plaka, in una di quelle taverne chiassose e fumose aperte sulla strada. Di giorno dormivano nelle cantine, e dopo l’imbrunire uscivano a guardare i mortali della taverna che cantavano e ballavano. Lamia, l’antica parola greca che indicava il vampiro, era il nome di quel locale dove le chitarre elettriche suonavano la primitiva musica greca, e i giovani mortali ballavano tra loro, con i fianchi che ondeggiavano seducenti come quelli delle donne, mentre scorreva il retsina. Alle pareti erano appese immagini dei film dei vampiri, Bela Lugosi nella parte di Dracula, la pallida Gloria Holden in quella di sua figlia… e c’erano i manifesti del vampiro Lestat, biondo e con gli occhi di ghiaccio.
Dunque anche loro avevano il senso dell’umorismo, pensò gentilmente. Ma i due vampiri, storditi dall’angoscia e dalla paura, sedevano fianco a fianco e fissavano la porta aperta mentre lui guardava all’interno. Come apparivano indifesi!
Non si mossero quando lo videro sulla soglia, con le spalle al bagliore bianco della strada. Che cosa pensavano nel vedere il suo mantello? Un mostro disceso dai manifesti per annientarli, quando sulla terra ben poche cose avevano lo stesso potere?
Vengo in pace. Voglio soltanto parlare con voi. Non andrò in collera… Vengo… con amore.