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I due sembravano paralizzati. Poi uno si alzò ed entrambi proruppero in un grido orrido e spontaneo. Il fuoco lo accecò come accecò i mortali che accanto a lui si precipitavano per fuggire sulla strada. I bevitori di sangue erano avvolti nelle fiamme e morivano, colti in una danza atroce con le braccia e le gambe contorte. Anche la casa bruciava, le travi fumavano, le bottiglie esplodevano, e scintille color arancio sprizzavano verso il cielo nuvoloso.

Era stato lui a fare questo? Era la morte per gli altri, lo desiderasse o no?

Lacrime di sangue gli scorsero sulla faccia bianca, sullo sparato della camicia. Alzò il braccio per ripararsi il viso con il mantello. Era un gesto di rispetto per l’orrore che si compiva davanti a lui… i bevitori di sangue che morivano bruciati dall’interno.

No, non poteva averlo fatto, non poteva. Lasciò che i mortali lo scostassero a spintoni. Le sirene gli ferivano le orecchie. Battè le palpebre mentre tentava di vedere nonostante le luci lampeggianti.

E poi, in un momento di comprensione violenta, intuì che non era stato lui. Perché vide l’essere che l’aveva fatto. Là, avvolto in uno scuro mantello, seminascosto in un vicolo buio, stava un essere che l’osservava in silenzio.

Quando i loro occhi s’incontrarono, lei sussurrò il suo nome.

«Khayman, mio Khayman.»

Si sentì svuotare la mente. Era come se una luce bianca discendesse su di lui e bruciasse ogni dettaglio. Per un momento sereno non provò nulla. Non sentì il fragore del fuoco che divampava, non sentì coloro che l’urtavano nel passargli accanto.

Si limitava a fissare la cosa, l’essere bellissimo e delicato, squisito com’era stato sempre. Un orrore insopportabile lo sopraffece. Ricordava tutto… tutto ciò che aveva visto, tutto ciò che era stato, tutto ciò che aveva saputo.

I secoli si spalancarono davanti a lui. I millenni si protesero fino a risalire all’inizio. La Prima Stirpe. Sapeva tutto. Rabbrividiva e piangeva. Sentì la propria voce dire, con tutto il rancore di un’accusa:

«Tu!»

All’improvviso, in un grande lampo ardente, sentì tutta la forza del potere rivelato. Il calore lo colpì al petto e lo fece arretrare barcollando.

Per gli dèi, ucciderai anche me! Ma lei non poteva udire i suoi pensieri. Si sentì scagliare contro il muro intonacato di bianco. Un dolore rovente lo colpì alla testa.

Tuttavia continuava a vedere, a sentire, a pensare! E il cuore batteva regolarmente come prima. Non bruciava!

E poi, con un calcolo improvviso, chiamò a raccolta le forze e lottò contro l’energia invisibile con un affondo violento della propria.

«Ah! è di nuovo una cattiveria, mia sovrana!» gridò nella lingua antica. Com’era umano il suono della sua voce!

Ma era tutto finito. Il vicolo era deserto. Lei non c’era più.

O più esattamente aveva preso il volo, s’era innalzata verticalmente come spesso aveva fatto anche lui, in modo così veloce che gli occhi non potevano vederla. Sì, sentiva la presenza che si allontanava. Alzò gli occhi e la individuò, senza molto sforzo… un minuscolo tratto di penna che si muoveva verso occidente, al di sopra delle nubi pallide.

I suoni brutali lo sconvolsero… sirene, voci, il crepitio della casa che bruciava, le travi che crollavano. La viuzza stretta era affollata; la musica chiassosa delle altre taverne non era cessata. Si allontanò, si allontanò piangendo, lanciando un ultimo sguardo al regno dei bevitori di sangue che erano morti. Ah, erano passati tanti millenni che non poteva contarli, eppure era sempre la stessa guerra.

Girovagò per ore per i vicoli bui.

Su Atene scese il silenzio. La gente dormiva dietro le pareti di legno. I marciapiedi luccicavano nella nebbia fitta come pioggia. La sua storia era come un gigantesco guscio di lumaca che si avvolgeva sopra di lui e lo inchiodava alla terra con il suo peso impossibile.

Alla fine salì una collina, ed entrò nella taverna fresca e lussuosa d’un grande albergo moderno, tutto vetro e acciaio. Era tutto bianco e nero, proprio come lui, con la pista da ballo a scacchi, i tavolini neri, le banquettes di pelle nera.

Sedette su una panca, senza che nessuno lo notasse, e nella semioscurità palpitante lasciò scorrere le lacrime. Pianse come uno sciocco, con la fronte appoggiata al braccio.

La follia non s’impadronì di lui, e neppure l’oblio. Vagava nei secoli, rivisitava i luoghi che aveva conosciuto con tenera, spensierata intimità. Pianse per tutti coloro che aveva conosciuto e amato.

Ma ciò che lo faceva soffrire soprattutto era il gran senso soffocante dell’inizio, il vero inizio, ancora prima del giorno remoto in cui s’era sdraiato nella sua casa in riva al Nilo, nella quiete meridiana, sapendo che quella sera avrebbe dovuto recarsi alla reggia.

Il vero inizio era venuto un anno prima quando il re aveva detto: «Se non fosse per la mia amata regina, mi prenderei piacere con quelle due donne. Dimostrerei che non sono streghe temibili. Lo farai tu al mio posto».

Era reale come quel momento: i cortigiani radunati, uomini e donne dagli occhi neri, dalle belle vesti di lino e dalle parrucche elaborate, alcuni nascosti dietro le colonne scolpite, altri orgogliosamente vicini al trono. E le gemelle dai capelli rossi che gli stavano davanti, le sue belle prigioniere che aveva finito per amare. Non posso far questo. Ma l’aveva fatto. Mentre la corte attendeva, e il re e la regina attendevano, aveva messo al collo il monile del re con il medaglione d’oro, per agire al posto del sovrano. Era sceso dai gradini del podio mentre le gemelle lo guardavano, e le aveva violate una dopo l’altra.

Sicuramente quella sofferenza non poteva durare.

Avrebbe voluto strisciare nelle viscere della terra, se ne avesse avuto la forza. Aspirava alla benedetta ignoranza. Andare a Delfi, vagare tra l’alta erba verde dal profumo dolce. Cogliere i minuscoli fiori selvatici. Si sarebbero schiusi per lui, come alla luce del sole, se li avesse temuti sotto la lampada?

Ma non voleva dimenticare. Qualcosa era cambiato, qualcosa aveva reso questo momento dissimile da ogni altro. Lei s’era destata dal lungo sonno! L’aveva veduta con i suoi occhi in una via di Atene! Passato e presente erano divenuti una cosa sola.

Mentre le lacrime si asciugavano, rimase in ascolto e pensò.

I ballerini si contorcevano davanti a lui sulla scacchiera illuminata. Le donne gli sorridevano. Lo vedevano come un bel Pierrot di porcellana, con la faccia bianca e le guance macchiate di rosso? Alzò gli occhi verso lo schermo video che palpitava e splendeva. I suoi pensieri divennero forti quanto i suoi poteri fisici.

Era il mese d’ottobre, verso la fine del ventesimo secolo dopo la nascita di Cristo. E appena poche notti prima aveva visto le gemelle in sogno! No. Era impossibile tirarsi indietro. Per lui la vera sofferenza stava appena incominciando, ma non aveva importanza. Era più vivo di quanto fosse mai stato.

Si asciugò lentamente il viso con un fazzoletto. Si lavò le dita nel bicchiere di vino che aveva davanti, come per consacrarle. E alzò di nuovo lo sguardo verso lo schermo video dove il vampiro Lestat cantava la sua tragica canzone.

Un demonio dagli occhi azzurri, con i capelli biondi scarmigliati, e le braccia e il torace possenti di un giovane. I movimenti erano bruschi e tuttavia eleganti, le labbra seducenti, la voce colma di sofferenza modulata.

E tu hai continuato a dirmelo per tutto questo tempo, no? Hai continuato a chiamare me! A chiamare il suo nome!

L’immagine dei video sembrava fissarlo, rispondere, cantare per lui, anche se in realtà non poteva vederlo. Coloro-che-devono-essere-conservati! Il mio re e la mia regina! Eppure ascoltava con attenzione totale ogni sillaba articolata meticolosamente nel frastuono dei corni e dei tamburi.