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E solo quando il suono e l’immagine svanirono si alzò e lasciò la taverna per vagare senza meta nei freschi corridoi di marmo dell’hotel e avventurarsi fuori, nell’oscurità.

Le voci lo chiamavano, le voci dei bevitori di sangue di tutto il mondo. Quelle voci erano sempre esistite. Parlavano di una calamità, della necessità di convergere per prevenire un orrido disastro. La Madre si è levata! Parlavano dei sogni delle gemelle, e non li comprendevano. E lui era stato sordo e cieco a tutto questo!

«Quante cose non comprendi, Lestat!» mormorò.

Finalmente salì su un promontorio buio e guardò l’Acropoli e i templi… i marmi bianchi spezzati che splendevano sotto le stelle fioche.

«Che tu sia maledetta, mia sovrana!» sussurrò. «Che tu sia dannata per ciò che hai fatto a tutti noi!» E pensare che in questo mondo d’acciaio e di benzina, di ruggenti sinfonie elettroniche e di silenziosi circuiti di computer, noi esistiamo ancora.

Ma un’altra maledizione ritornò, molto più forte di questa. Era venuta un anno dopo il momento terribile in cui aveva violentato le due donne… una maledizione urlata nel cortile della reggia, sotto un cielo notturno distante e indifferente come questo.

«Gli spiriti siano testimoni: perché a essi appartiene la conoscenza del futuro, di ciò che sarebbe e di ciò che io voglio: tu sei la Regina dei Dannati, ecco ciò che sei. Il male è il tuo unico destino. Ma nella tua ora più grande, sarò io a sconfiggerti. Guardami bene in faccia. Sono io che ti abbatterò.»

Quante volte, durante i primi secoli, aveva ricordato quelle parole? In quanti luoghi, fra i deserti e le montagne e le fertili valli fluviali, aveva cercato le sorelle dai capelli rossi? Fra i beduini che un tempo le avevano ospitate, tra i cacciatori che ancora vestivano di pelli, e tra gli abitanti di Gerico, la città più antica del mondo. Appartenevano già alla leggenda.

E poi era discesa la follia benedetta: aveva perduto la conoscenza, il rancore e il dolore. Era Khayman, colmo d’amore per tutto ciò che vedeva intorno a sé: un essere che comprendeva la parola gioia.

Possibile che fosse giunta l’ora? Possibile che le gemelle fossero sopravvissute come lui? E che la memoria gli fosse stata restituita per quel grande scopo?

Ah, che pensiero splendido e travolgente, l’idea che la Prima Stirpe si ritrovasse, che la Prima Stirpe conoscesse finalmente la vittoria.

Ma con un sorriso amaro pensò alle umane aspirazioni eroiche del vampiro Lestat. Sì, fratello mio, perdona il mio disprezzo. Anch’io desidero il bene e la gloria. Ma probabilmente non esiste un destino e non esiste la redenzione. Solo ciò che vedo davanti a me, mentre sto al di sopra di questo antico paesaggio contaminato… soltanto la nascita e la morte, e gli orrori che ci attendono tutti.

Rivolse un’ultima occhiata alla città addormentata, al luogo moderno e sgraziato e divorato dagli affanni dove era stato così contento e dove aveva vagato su innumerevoli tombe antiche.

E poi ascese, e in pochi secondi s’innalzò sopra le nubi. Ora sarebbe venuta la prova più grande del dono magnifico: amava quel senso di finalità, per quanto fosse illusorio. Si diresse verso ovest, verso il vampiro Lestat, verso le voci che invocavano di comprendere i sogni delle gemelle. Si diresse verso ovest, come già lei aveva fatto.

Il suo mantello si allargò come un paio d’ali e la deliziosa aria fredda l’investì e lo fece ridere all’improvviso, come se per un momento fosse ridiventato il sempliciotto felice.

6. LA STORIA DI JESSE, LA GRANDE FAMIGLIA E IL TALAMASCA

I morti non partecipano. Sebbene si protendano verso di noi dalla tomba (e giuro che lo fanno) non ci affidano i loro cuori. Ci porgono le loro teste, la parte che osserva.
Stan Rice
da «Their Share»
Body of Work (1983)

Coprile il volto; i miei occhi sono abbagliati; è morta giovane.

John Webster
IL TALAMASCA
Investigatori del Paranormale
Noi osserviamo
E siamo sempre qui.
Londra Amsterdam Roma

Jesse gemeva nel sonno. Era una donna delicata di trentacinque anni, dai lunghi riccioli rossi. Era sprofondata su un materasso di piume, in un letto di legno appeso al soffitto da quattro catene arrugginite. Nella grande casa suonò un orologio. Doveva svegliarsi. Mancavano due ore al concerto del vampiro Lestat. Ma proprio in quel momento non poteva lasciare le gemelle.

Quella era una nuova parte che le si rivelava tanto rapidamente, sebbene il sogno fosse indistinto, come sempre i sogni delle gemelle. Tuttavia sapeva che le gemelle erano di nuovo nel regno del deserto. La folla che le stava attorno era molto pericolosa. Come apparivano diverse e pallide ora le gemelle. Forse quel fulgore fosforescente era un’illusione, ma parevano risplendere nella semioscurità, e i loro movimenti erano languidi, quasi fossero presi dal ritmo di una danza. Le torce venivano protese verso di loro mentre si abbracciavano: ma ecco, qualcosa non andava, non andava affatto. Adesso una di loro era cieca.

Le palpebre erano chiuse, raggrinzite e infossate. Sì, le avevano strappato gli occhi. E l’altra? Perché l’altra emetteva quei suoni terribili? «Taci, non lottare più», disse la cieca, nell’antica lingua che era sempre comprensibile nei sogni. E dalla gola dell’altra gemella usciva un orrido gemito gutturale. Non poteva parlare. Le avevano tagliato la lingua.

Non voglio vedere altro. Voglio svegliarmi. Ma i soldati avanzavano tra la folla, stava per accadere qualcosa di orribile, e all’improvviso le gemelle restavano immobili. I soldati le afferravano e le separavano.

Non separatele! Non sapete cosa significa per loro? Lasciatele! Gettate via le torce! Non bruciatele! Non bruciate i loro capelli rossi.

La gemella cieca allungò le braccia e tese le mani verso la sorella e gridò il suo nome: «Mekare!» E Mekare, la muta che non poteva rispondere, ruggiva come una belva ferita.

La folla faceva largo a due immensi sarcofaghi di pietra, trasportati su grandi, pesanti lettighe. Erano sarcofaghi rozzi; tuttavia i coperchi avevano le forme rudimentali di volti e membra umani. Che cos’hanno fatto le gemelle, perché le mettano in quelle bare? Non lo sopporto: le bare vengono deposte a terra, le gemelle vengono trascinate avanti, i coperchi di pietra vengono sollevati. Non fatelo! La cieca lotta come se vedesse, eppure la sopraffanno, la sollevano, la depongono all’interno. In preda a un muto terrore, Mekare osserva, mentre viene trascinata all’altra bara. Non abbassate il coperchio, o io urlerò anche per Mekare! Urlerò per entrambe…

Jesse si mise a sedere, con gli occhi aperti. Aveva urlato.

Sola, in quella casa dove nessuno poteva udirla, aveva urlato e sentiva ancora l’eco. Poi più nulla, se non il silenzio che discendeva intorno a lei, il lieve scricchiolio del letto che ondeggiava appeso alle catene e il canto degli uccelli fuori nella foresta, la foresta fitta. Jesse aveva la curiosa consapevolezza che l’orologio aveva suonato le sei.

Il sogno si dileguava rapidamente. Cercò di fermarlo, disperatamente, di vedere i dettagli che sfuggivano sempre più rapidamente… le vesti di quella gente, le armi dei soldati, i volti delle gemelle! Ma tutto era ormai svanito. Restavano soltanto l’incantesimo e una coscienza acuta di ciò che era accaduto… e la certezza che il vampiro Lestat fosse legato a quei sogni.