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Sicuramente l’aveva fatto. Sicuramente aveva aperto una pesante porta di legno di sequoia…

Poi, per anni, le immagini le erano tornate fulminee alla mente, come dei piccoli lampi… un’immensa camera bassa con sedie di quercia, un tavolo e panche che sembravano di pietra. E che altro? Qualcosa che in un primo momento le era parso molto familiare. E poi…

Più tardi non aveva ricordato altro che la scala. All’improvviso erano le dieci, lei s’era appena svegliata e Maharet era ai piedi del letto. Maharet s’era avvicinata e l’aveva baciata. Un bacio caldo, meraviglioso che l’aveva pervasa di una sensazione palpitante. Maharet le disse che l’avevano trovata accanto al ruscello, addormentata nella radura e al tramonto l’avevano portata in casa.

In riva al ruscello? Per mesi e mesi, Jesse aveva «ricordato» di essersi addormentata là. In effetti era un vero e proprio ricordo, ricco dei dettagli della pace e del silenzio della foresta, dell’acqua che cantava sulle pietre. Tutto questo non era mai accaduto: adesso ne era sicura.

Ma dopo quindici anni non aveva trovato prove, in un senso o nell’altro, di quelle cose vagamente riaffiorate alla memoria. Le stanze erano sbarrate. Persino i volumi con la storia della famiglia erano chiusi nelle vetrine che lei non osava toccare.

Tuttavia aveva creduto con tanta fermezza in ciò che riusciva a ricordare. Sì, tavolette d’argilla coperte di minuscole figure filiformi per rappresentare persone, alberi, animali. Le aveva viste, le aveva tolte dagli scaffali, le aveva tenute sotto la lampada fioca. La scala e la stanza la spaventavano, no, anzi, la terrorizzavano… sì, con tutto il resto.

Eppure era stato un paradiso, in quei caldi giorni e in quelle calde notti d’estate, quando per ore e ore aveva parlato con Maharet e aveva danzato con Mael e Maharet alla luce della luna. Per ora era meglio dimenticare la sofferenza che aveva provato più tardi quando aveva cercato di comprendere perché Maharet l’aveva rimandata a casa a New York e non l’aveva più fatta ritornare.

Mia cara,

la verità è che ti amo troppo. La mia vita assorbirà la tua se non saremo separate. Devi avere la libertà, Jesse, la libertà di realizzare i tuoi piani, le ambizioni e i sogni…

Non era per rivivere la vecchia sofferenza che era ritornata, ma per conoscere ancora, solo per un poco, la gioia che l’aveva preceduta.

Quel pomeriggio, lottando contro la debolezza, era uscita dalla casa, aveva percorso il lungo viottolo fra le querce. Era così facile ritrovare i vecchi sentieri fra le sequoie. E la radura, cinta di felci e di trifoglio sulle scoscese rive sassose del ruscello tumultuoso e poco profondo.

Lì, una volta, Maharet l’aveva guidata attraverso l’oscurità assoluta, nell’acqua e lungo un sentiero di pietre. Mael le aveva raggiunte. Maharet aveva versato il vino per Jesse, e avevano cantato insieme un canto che più tardi Jesse non era riuscita a ricordare, anche se ogni tanto si sorprendeva a canticchiare quella bizzarra melodia con inesplicabile esattezza; ma poi s’interrompeva quando ne diventava cosciente e non riusciva a ritrovare la nota giusta.

Forse si sarebbe addormentata in riva al ruscello, tra i suoni profondi della foresta: era tutto così simile a quella specie di «ricordo» di tanti anni prima.

Il verde brillante degli aceri era così fulgido nei rari raggi di luce. E come apparivano mostruose le sequoie nella quiete ininterrotta: colossali, indifferenti, svettavano a decine e decine di metri prima che la trina cupa delle loro fronde si chiudesse sul margine sfrangiato del cielo.

E lei aveva saputo cosa le sarebbe costato il concerto di quella sera, con i fans urlanti di Lestat. Ma aveva avuto paura che ricominciasse il sogno delle gemelle.

Finalmente era tornata in casa e aveva portato con sé le rose e la lettera. La sua vecchia camera. Le tre. Chi caricava gli orologi di quel luogo? Il sogno delle gemelle la perseguitava. Ed era troppo stanca per continuare a lottare. Quel posto le sembrava così sereno. Non c’erano fantasmi del genere che aveva incontrato tante volte nel suo lavoro. Soltanto la pace. S’era sdraiata sul vecchio letto sospeso, sopra la trapunta che lei stessa aveva confezionato accuratamente con Maharet, quell’estate. E il sonno e le gemelle erano venuti nello stesso istante.

Adesso aveva due ore per raggiungere San Francisco, e doveva lasciare di nuovo quella casa, forse piangendo. Controllò le tasche. Passaporto, documenti, denaro, chiavi.

Prese la borsa di pelle, l’appese alla spalla e si avviò nel lungo corridoio che portava alla scala. L’oscurità scendeva rapidamente: e quando avesse avvolto la foresta, nulla sarebbe più stato visibile.

C’era ancora un po’ di sole nella sala principale quando vi entrò. Dalle finestre a occidente, altri raggi polverosi illuminavano l’immenso arazzo appeso alla parete.

Jesse lo guardò e trattenne il respiro. Era sempre stato il suo preferito, perché era grande e complesso. In un primo momento sembrava una massa di toppe piazzate a caso… e poi, gradualmente, il paesaggio boscoso emergeva dalla miriade di pezzetti di tessuto. Lo si vedeva per un istante, e un attimo dopo spariva. Era accaduto tante volte durante quell’estate quando, ubriaca di vino, aveva camminato avanti e indietro di fronte a esso, e aveva perso l’immagine e l’aveva ritrovata: la montagna, la foresta, un minuscolo villaggio annidato nella valle sottostante.

«Mi dispiace, Maharet», sussurrò di nuovo, a voce bassa. Doveva andare. Il suo viaggio era quasi terminato.

Ma mentre distoglieva lo sguardo, qualcosa nel paesaggio trapunto attirò la sua attenzione. Tornò a voltarsi, a studiarlo. C’erano figure che non aveva mai visto? Ancora una volta era uno sciame di frammenti cuciti insieme. Poi, lentamente, emerse il fianco della montagna, gli ulivi e infine i tetti del villaggio, solo delle casupole gialle sparse sul fondovalle. Le figure? Non riusciva a trovarle. Cioè, fino a quando girò di nuovo la testa. Con la coda dell’occhio le scorse per una frazione di secondo. Due figurine minuscole che si tenevano abbracciate: due donne dai capelli rossi.

Lentamente, cautamente, tornò a girarsi verso il paesaggio. Il suo cuore batteva forte. Sì, là. Ma era un’illusione?

Attraversò la stanza e si fermò davanti alla trapunta. Tese la mano e la toccò. Sì! Ogni pupazzetto aveva un paio di bottoncini verdi per occhi, un naso cucito meticolosamente e una bocca rossa! E i capelli, i capelli erano di filato rosso, disposto in onde irregolari e cucito delicatamente sulle spalle bianche.

Restò a fissare la scena, come incredula. Eppure erano lì… le gemelle! E lei era impietrita. Nella stanza incominciò a scendere l’oscurità. L’ultima luce era calata sotto l’orizzonte. Davanti ai suoi occhi, la trapunta sbiadiva in un complesso illeggibile.

Stordita, sentì l’orologio suonare il quarto. Chiama il Talamasca. Chiama David a Londra. Raccontagli una parte dell’accaduto, qualunque cosa… Ma era fuori questione e lo sapeva. E le spezzava il cuore rendersi conto che, qualunque cosa le accadesse quella notte, il Talamasca non sarebbe mai venuto a conoscenza dell’intera storia.

S’impose di andarsene, di chiudersi la porta alle spalle, di attraversare il portico, e di avviarsi per il lungo sentiero.

Non comprendeva pienamente i suoi sentimenti, non capiva perché era così sconvolta e sull’orlo delle lacrime. Confermava i suoi sospetti, tutto ciò che credeva di sapere. Eppure era spaventata. E piangeva.

Attendi Maharet.

Ma non poteva. Maharet l’avrebbe incantata e confusa, l’avrebbe allontanata dal mistero in nome dell’amore. Era quanto era avvenuto in quell’estate di tanto tempo prima. Il vampiro Lestat non nascondeva nulla. Il vampiro Lestat era l’elemento cruciale del mosaico. Vederlo e toccarlo avrebbe significato convalidare tutto.