La rossa Mercedes spider partì immediatamente. In uno zampillo di ghiaia fece marcia indietro, girò, si diresse verso la stretta via sterrata. La cappotta era abbassata: si sarebbe gelata prima di arrivare a San Francisco. Le piaceva l’aria fredda sul volto e le piaceva correre.
La strada affondò subito nel buio dei boschi. Lì non poteva penetrare neppure la luce della luna nascente. Jesse accelerò affrontando con disinvoltura le curve improvvise. La sua tristezza si appesantì: ma non pianse più. Il vampiro Lestat… fra poco l’avrebbe raggiunto.
La nebbia saliva dalla costa, trasformava in fantasmi le colline scure a est e a ovest. Tuttavia i fari illuminavano la strada davanti a lei. La sua eccitazione cresceva. Fra un’ora sarebbe arrivata al Golden Gate. La tristezza si dileguava. Per tutta la vita era stata fiduciosa e aveva avuto fortuna; a volte s’era spazientita con le persone troppo caute che aveva conosciuto. E nonostante il senso di fatalità di quella notte e l’acuta consapevolezza dei pericoli cui andava incontro, sentiva che forse la solita fortuna l’accompagnava. Non aveva paura.
Secondo lei era nata fortunata. Era stata trovata sul bordo della strada pochi minuti dopo l’incidente che aveva ucciso la madre adolescente, incinta di sette mesi… una neonata espulsa prematuramente dall’utero, che strillava per liberarsi i minuscoli polmoni, quando era sopraggiunta l’ambulanza.
Non aveva avuto nome, durante le due settimane in cui aveva languito nell’ospedale della contea, condannata per ora alla sterilità e al freddo delle macchine; ma le infermiere l’adoravano, l’avevano soprannominata passerottina, la coccolavano e appena potevano cantavano per lei.
Ancora dopo molti anni le avrebbero scritto, le avrebbero mandato fotografie, le avrebbero raccontato piccoli aneddoti che avevano aumentato in lei la sensazione di essere amata.
E alla fine Maharet era venuta a prenderla; l’aveva identificata come l’unica superstite della famiglia Reeves del South Carolina, e l’aveva portata a New York, a vivere con certi cugini dal cognome e dall’origine diversa. Là sarebbe cresciuta in un vecchio, lussuoso appartamento a due piani in Lexington Avenue, con Maria e Matthew Godwin, che le avevano dato non soltanto affetto, ma anche tutto ciò che poteva desiderare. Una governante inglese avrebbe dormito nella sua camera fino a quando non avesse compiuto dodici anni.
Non riusciva a ricordare quando era venuta a conoscenza che sua zia Maharet aveva provveduto a lei, che avrebbe potuto frequentare qualunque università e dedicarsi a qualunque carriera desiderasse. Matthew Godwin era dottore; Maria era stata ballerina e insegnante; ammettevano con franchezza di essere attaccati a Jesse, di avere bisogno di lei. Era la figlia che avevano sempre desiderato, e quelli erano stati anni piacevoli e felici.
Le lettere di Maharet avevano incominciato ad arrivare quando era diventata abbastanza grande per leggerle. Erano meravigliose, spesso piene di cartoline coloratissime e di strane banconote dei paesi dove viveva Maharet. Jesse aveva un cassetto pieno di rupie e di lire, prima ancora di raggiungere i diciassette anni. Ma soprattutto aveva in Maharet un’amica che rispondeva con sentimento e attenzione a ogni riga scritta da lei.
Era Maharet che la ispirava nella lettura, la incoraggiava a prendere lezioni di musica e di pittura, le organizzava le visite estive in Europa: e alla fine l’aveva fatta ammettere alla Columbia University, dove aveva studiato lingue e arte antiche.
Era Maharet che combinava le visite natalizie presso i cugini europei, gli Scartino in Italia, una potente famiglia di banchieri che viveva in una villa nei pressi di Siena, e i Borchardt parigini, che l’accoglievano con entusiasmo nella loro casa sovraffollata e sempre gaia.
L’estate in cui Jesse aveva compiuto i diciassette anni era andata a Vienna per conoscere il ramo russo emigrato della famiglia, giovani intellettuali e musicisti che le erano molto simpatici. Poi era andata in Inghilterra a conoscere la famiglia Reeves imparentata direttamente con i Reeves del South Carolina, che avevano lasciato secoli prima il vecchio continente.
A diciotto anni era andata a trovare i cugini Petralona nella loro villa di Santorini. Erano greci molto ricchi e dall’aria esotica che vivevano in uno splendore quasi feudale, circondati da servitori contadini; e con una decisione improvvisa avevano portato Jesse sul loro yacht in una crociera a Istanbul, Alessandria e Creta.
Jesse s’era quasi innamorata del giovane Constantin Petralona. Maharet le aveva fatto sapere che il matrimonio sarebbe stato approvato da tutti, ma che doveva decidere da sé. Jesse aveva detto addio all’innamorato ed era tornata in America e all’università, per prepararsi al suo primo scavo archeologico in Iraq.
Ma anche durante gli anni degli studi era rimasta vicina alla famiglia. Tutti erano buoni con lei. Ma erano buoni anche con gli altri. Tutti credevano nella famiglia. Si scambiavano molte visite e i frequenti matrimoni tra loro avevano creato inestricabili intrichi di parentela; in ogni casa c’erano sempre stanze a disposizione dei parenti che potevano capitare. Gli alberi genealogici sembravano risalire a tempi antichissimi; tutti raccontavano aneddoti su parenti famosi morti da tre o quattrocento anni. Jesse aveva sempre provato una grande comunione con quella gente, anche se sembrava così diversa.
A Roma poi era rimasta affascinata dai cugini che lanciavano le loro Ferrari a velocità vertiginose, con gli stereo al massimo, e la notte rincasavano in un vecchio palazzo meraviglioso dove gli impianti igienici funzionavano male e il tetto sgocciolava. I cugini ebrei della California meridionale erano un adorabile assortimento di musicisti, stilisti e produttori che in un modo o nell’altro erano legati da cinquant’anni al cinema. La loro vecchia casa presso Hollywood Boulevard ospitava una ventina di attori disoccupati. Jesse poteva vivere nell’attico, se voleva; la cena veniva servita alle sei a chiunque capitasse.
Ma chi era Maharet, che era sempre stata la tutrice lontana e attenta di Jesse, che guidava i suoi studi con lettere frequenti e premurose e le dava l’orientamento personale cui reagiva in modo tanto produttivo?
Per tutti i cugini che Jesse visitava, Maharet era una presenza concreta, anche se le sue visite erano così poco frequenti da apparire memorabili. Era lei che custodiva gli archivi della Grande Famiglia, di tutti i rami che esistevano sotto molti cognomi in tutto il mondo. Era lei che spesso faceva incontrare i vari componenti, e combinava matrimoni per unire i diversi rami; era lei che poteva dare aiuto nei momenti difficili… un aiuto che a volte significava la differenza fra la vita e la morte.
Prima di Maharet c’era stata sua madre, che adesso veniva chiamata la Vecchia Maharet, e prima ancora la Prozia Maharet, e così via, e questo era nella memoria di tutti. «Ci sarà sempre una Maharet», era un detto di famiglia, ripetuto in italiano, in tedesco, in russo, in yiddish o in greco. In ogni generazione c’era sempre una discendente che portava quel nome e si addossava il compito di tenere la documentazione: o almeno così sembrava, perché nessuno, tranne la stessa Maharet, conosceva quei dettagli.
«Quando ti conoscerò?» aveva scritto molte volte Jesse nel corso degli anni. Aveva raccolto i francobolli staccandoli dalle buste giunte da Delhi e Rio e Città del Messico, da Bangkok e Tokyo e Lima e Saigon e Mosca.
Tutta la famiglia era affezionata a quella donna; ma per Jesse c’era un altro legame segreto e potente.
Fin dai primi anni di vita Jesse aveva avuto esperienze «insolite», diverse da quelle della gente che le stava intorno.