Per esempio, Jesse sapeva leggere i pensieri altrui in modo vago, nebuloso. «Sapeva» quando qualcuno la detestava o le mentiva. Aveva il dono delle lingue perché spesso comprendeva il senso di un discorso anche quando non conosceva il vocabolario.
E vedeva i fantasmi… persone e cose che non potevano esistere.
Quand’era molto piccola, spesso vedeva l’indistinta sagoma grigia di una casa elegante di fronte alla sua finestra, a Manhattan. Sapeva che non era reale; e all’inizio l’aveva fatta ridere il modo in cui appariva e spariva, a volte sembrava trasparente, a volte solida come la strada, con le luci accese dietro le tende di pizzo. Erano passati anni prima che scoprisse che quella casa, un tempo, era di proprietà dell’architetto Stanford White, e che era stata demolita diversi decenni prima.
Le immagini umane che vedeva non le si presentavano, all’inizio, altrettanto ben formate. Al contrario, erano brevi apparizioni indistinte e spesso aggravavano il disagio inesplicabile che provava in certi luoghi particolari.
Ma con il passare del tempo i fantasmi erano diventati più visibili, più permanenti. Una volta, in un buio pomeriggio piovoso, la figura trasparente d’una vecchia s’era avviata verso di lei e l’aveva addirittura attraversata. In preda all’isteria, Jesse era entrata correndo in un negozio, dove i commessi avevano telefonato a Matthew e Maria. Jesse aveva cercato più volte di descrivere il viso turbato della vecchia, gli occhi sbarrati che sembravano non vedere il mondo reale circostante.
Spesso gli amici non le credevano quando descriveva queste cose. Ma restavano affascinati e la pregavano di ripetere i suoi racconti. A Jesse rimaneva una spiacevole sensazione di vulnerabilità. Perciò cercava di non parlare dei fantasmi, anche se nell’adolescenza vedeva sempre più spesso quelle anime perdute.
Persino quando camminava tra la folla della Quinta Strada, a mezzogiorno, vedeva quegli esseri pallidi. Poi una mattina in Central Park, quando aveva sedici anni, aveva visto l’apparizione di un giovane, seduto su una panchina poco lontano da lei. Il parco era affollato e rumoroso: tuttavia la figura pareva distaccata, come se non fosse partecipe di quanto l’attorniava. I suoni intorno a Jesse avevano incominciato a smorzarsi, come se quell’essere li assorbisse. Aveva pregato perché scomparisse; e subito il giovane s’era voltato, l’aveva fissata e aveva tentato di parlarle.
Jesse era corsa a casa, in preda al panico. Ora quegli esseri la conoscevano, aveva detto a Matthew e a Maria. Aveva paura di uscire dall’appartamento. Matthew le aveva dato un sedativo e le aveva detto che sarebbe riuscita a dormire. E aveva lasciato aperta la porta, in modo che non avesse paura.
Mentre Jesse era semiaddormentata, era entrata una ragazza. Jesse si rendeva conto di conoscerla: naturalmente faceva parte della famiglia, era sempre stata accanto a lei e avevano parlato molte volte, non era una sorpresa che fosse così giovane e affettuosa e familiare. Era un’adolescente, non più vecchia di lei.
La ragazza s’era seduta sul letto e aveva detto a Jesse che non doveva preoccuparsi, e che gli spiriti non potevano farle del male. Nessun fantasma aveva mai fatto del male a qualcuno. Non ne avevano il potere. Erano povere cose deboli e patetiche. «Scrivi alla zia Maharet», aveva detto la ragazza; aveva baciato Jesse e le aveva scostato i capelli dal viso. Il sedativo aveva fatto effetto; Jesse non riusciva a tenere gli occhi aperti. Voleva chiedere qualcosa a proposito dell’incidente d’auto quand’era nata, ma non le veniva in mente. «Ciao, tesoro», aveva detto la ragazza, e Jesse s’era addormentata prima che l’altra se ne andasse.
Quando s’era svegliata erano le due del mattino. L’appartamento era buio. Aveva subito cominciato a scrivere a Maharet, per raccontare tutti gli episodi strani che ricordava.
Solo all’ora di cena aveva pensato alla ragazza con un trasalimento. Era impossibile che avesse vissuto lì e fosse sempre stata presente. Come aveva potuto crederlo? Persino nella lettera aveva scritto: «Naturalmente Miriam era qui, e ha detto…» E chi era Miriam? Un nome sul certificato di nascita di Jesse. Sua madre.
Jesse non aveva detto a nessuno quanto era accaduto. Tuttavia si sentiva avvolta da un senso di calore confortante. Poteva sentire la presenza di Miriam, ne era sicura.
La lettera di Maharet era arrivata dopo cinque giorni. Maharet le credeva. Le apparizioni degli spiriti non erano per nulla sorprendenti. Esistevano, senza dubbio, e Jesse non era la sola persona che li vedeva.
Nella nostra famiglia per generazioni sono stati in molti quelli capaci di vedere gli spiriti. E come sai, erano i maghi e le streghe delle epoche passate. Spesso questo potere appartiene a coloro che hanno i tuoi stessi attributi fisici, gli occhi verdi, la pelle chiara e i capelli rossi. Sembra che tali geni siano indissolubili. Forse un giorno la scienza spiegherà questa caratteristica. Ma per ora sii certa che i tuoi poteri sono del tutto naturali. Ciò non significa, tuttavia, che siano costruttivi. Sebbene gli spiriti siano reali, non comportano molte differenze nello schema delle cose. Possono essere puerili, vendicativi e ingannevoli. In generale non puoi aiutare le entità che tentano di comunicare con te, e a volte vedi soltanto uno spettro privo di vita… cioè un’eco visuale di una personalità non più presente da molto tempo.
Non temerli, ma non permettere che ti facciano sprecare tempo. È ciò che amano fare, quando sanno che puoi vederli. In quanto a Miriam, devi dirmi se la rivedrai. Ma poiché mi hai scritto come ti aveva chiesto, non credo che riterrà necessario ritornare. Con ogni probabilità è molto al di sopra delle tristi frenesie di coloro che vedi così spesso. Scrivimi di queste cose, quando ti spaventano. Ma non dirlo ad altri. Coloro che non vedono non ti crederanno mai.
La lettera aveva avuto per Jesse un valore inestimabile. Per anni l’aveva portata con sé nella borsa o in tasca, dovunque andasse. Maharet non solo le aveva creduto, ma le aveva dato la possibilità di comprendere quel potere inquietante. Tutto ciò che diceva Maharet aveva senso.
In seguito, Jesse era stata spaventata ogni tanto dagli spiriti; e si era confidata con gli amici più intimi. Ma in generale si comportava come le aveva raccomandato Maharet; e i poteri non l’avevano più turbata. Sembrava che fossero diventati latenti; per lunghi periodi se ne dimenticava.
Le lettere di Maharet giungevano con frequenza anche maggiore. Maharet era la sua confidente, la sua migliore amica. Quando Jesse era andata al college, aveva dovuto ammettere che Maharet era più reale per lei, per mezzo delle lettere, di qualunque altra persona che aveva conosciuto. Ma da molto tempo aveva finito per rassegnarsi all’idea che forse non si sarebbero mai viste.
Poi una sera, quando Jesse frequentava il terzo anno alla Columbia, aveva aperto la porta del suo appartamento e aveva trovato le luci accese, il fuoco che scoppiettava nel camino e una donna alta e magra dai capelli rossi che lo ravvivava con un attizzatoio.
Com’era bella! Era stata la prima impressione di Jesse. Truccata alla perfezione, la sua faccia aveva un’artificiosità orientale, a parte l’intensità straordinaria degli occhi verdi e i fitti riccioli rossi che le spiovevano sulle spalle.
«Carissima», aveva detto la donna. «Sono Maharet.»
Jesse s’era precipitata ad abbracciarla. Ma Maharet l’aveva trattenuta, come per guardarla meglio. Poi l’aveva coperta di baci, come se non osasse toccarla in altro modo. Teneva leggermente le braccia di Jesse con le mani inguantate. Era stato un momento bellissimo, delicato. Jesse aveva accarezzato i folti, morbidi capelli rossi di Maharet, così simili ai suoi.
«Tu sei mia figlia», aveva bisbigliato Maharet. «Sei ciò che avevo sperato che fossi. Sai quanto sono felice?»
Quella notte Maharet le era sembrata di fuoco e di ghiaccio. Immensamente forte e straordinariamente calda. Una creatura esile e tuttavia statuaria, con la vita sottile e la gonna ampia: aveva la misteriosità aristocratica delle indossatrici, il fascino strano delle donne che si sono trasformate in scultura. Il lungo mantello di lana marrone ondeggiava con grazia mentre lasciavano insieme l’appartamento. Tuttavia s’erano subito trovate a loro agio.