Era stata una lunga notte: erano andate alle gallerie, a teatro, e poi a cena, anche se Maharet non aveva mangiato nulla. Era troppo emozionata, aveva detto. Non s’era neppure sfilati i guanti. Voleva solo ascoltare ciò che Jesse aveva da dirle. E Jesse aveva parlato e parlato di tutto… la Columbia, i suoi studi archeologici, il sogno di lavorare agli scavi in Mesopotamia.
Era così diverso dall’intimità delle lettere. Avevano passeggiato insieme al buio in Central Park, e Maharet aveva detto a Jesse che non c’era motivo di aver paura. Ed era sembrato del tutto normale. E così bello, come se percorressero i sentieri di una foresta incantata, senza temere nulla, parlando con voci eccitate ma sommesse. Era divino sentirsi così sicura! Verso l’alba, Maharet aveva lasciato Jesse all’appartamento promettendole di portarla presto in California. Maharet aveva una casa, là, tra i monti di Sonoma.
Ma dovevano passare due anni prima che arrivasse l’invito. Jesse s’era appena laureata. In luglio avrebbe incominciato a lavorare a uno scavo in Libano.
«Devi venire per due settimane», aveva scritto Maharet. Alla lettera era allegato il biglietto d’aereo. Mael, «un caro amico», sarebbe andato a prenderla all’aeroporto.
Sebbene a quel tempo Jesse non l’ammettesse, fin dall’inizio erano accadute cose strane.
Mael, per esempio, un uomo alto e imponente dai lunghi capelli biondi e ondulati e i profondi occhi azzurri: c’era qualcosa di strano nel modo in cui si muoveva, nel timbro della voce, nel modo meticoloso in cui guidava la macchina vèrso nord, verso Sonoma County. Vestiva di pelle come un rancher e portava gli stivali di coccodrillo: aveva un paio di splendidi guanti di capretto nero e gli occhiali con le lenti azzurrate e la montatura d’oro.
Eppure era così allegro, così lieto di vederla, e Jesse l’aveva trovato subito simpatico. Gli aveva raccontato la storia della sua vita prima che arrivassero a Santa Rosa. Mael aveva una risata incantevole. Ma Jesse s’era sentita venire le vertigini, un paio di volte, mentre lo guardava. Perché?
Il complesso era incredibile. Chi poteva aver costruito un posto come quello? Era in fondo a un’impossibile strada sterrata, e le stanze sul retro erano scavate nella montagna, come se fossero state usate macchine enormi. Poi c’erano le travi del tetto. Erano di sequoia? Dovevano avere una circonferenza di tre metri e mezzo. E i muri di adobe erano indubbiamente antichi. Gli europei erano giunti in California in tempi così remoti da poter… Ma che importanza aveva? Il posto era magnifico. Jesse s’era entusiasmata per i focolari rotondi di ferro e per i tappeti di pelli, per l’enorme biblioteca e per il rudimentale osservatorio con il vecchissimo telescopio d’ottone.
Aveva apprezzato i cordiali servitori che ogni mattina arrivavano da Santa Rosa per pulire, fare il bucato, preparare i sontuosi pasti. Non l’infastidiva neppure essere da sola così spesso. Amava passeggiare nella foresta. Andava a Santa Rosa per comprare romanzi e giornali. Studiava trapunte e arazzi: c’erano oggetti antichi che non sapeva classificare ma che le piaceva esaminare.
Il complesso aveva tutte le comodità. Le antenne collocate sulla montagna captavano le trasmissioni televisive. C’era un cinema sotterraneo con proiettore, schermo, e una collezione inesauribile di film. Nei pomeriggi caldi andava a nuotare nel laghetto a sud della casa. Quando l’imbrunire portava il freddo inevitabile della California settentrionale, in ogni focolare fiammeggiavano grossi ceppi.
Naturalmente, per lei la più grande scoperta era stata la storia della famiglia. C’erano innumerevoli volumi rilegati in pelle che documentavano tutti i rami della Grande Famiglia per secoli e secoli. Era affascinante scoprire centinaia di album di fotografìe, e bauli pieni di ritratti dipinti; alcuni non erano più grandi di minuscole miniature ovali, altri erano tele coperte di polvere.
Aveva divorato la storia dei Reeves del South Carolina, il suo ramo della famiglia… ricchi prima della guerra di Secessione, poi caduti in rovina. Le loro fotografie le apparivano quasi insopportabili. Finalmente vedeva gli antenati cui somigliava: riconosceva i propri lineamenti, in quelle facce; avevano la sua carnagione pallida e persino la sua espressione! E due di loro avevano i capelli rossi, lunghi e ricciuti. Per Jesse, figlia adottiva, tutto questo aveva un significato speciale.
Solo verso la conclusione del suo soggiorno la documentazione di famiglia aveva incominciato ad apparirle in tutte le implicazioni, mentre apriva uno dopo l’altro i rotoli scritti in latino, in greco antico e indietro nel tempo fino ai geroglifici egizi. In seguito non sarebbe mai più riuscita a collocare con precisione la scoperta delle tavolette d’argilla nella camera sotterranea. Ma il ricordo delle sue conversazioni con Maharet non s’era mai appannato. Avevano parlato per ore delle cronache della famiglia.
Jesse aveva chiesto di potersi occupare della storia familiare: avrebbe rinunciato agli studi, per quella biblioteca. Voleva tradurre e adattare i vecchi documenti e passarli al computer. Perché non pubblicare la storia della Grande Famiglia? Sicuramente una simile discendenza era insolita, per non dire unica. Persino i sovrani europei non erano in grado di rintracciare i loro antenati oltre il medioevo.
Maharet aveva accolto con pazienza l’entusiasmo di Jesse, le aveva ricordato che quel lavoro portava via molto tempo e non dava molte soddisfazioni. Dopotutto era solo la storia di una famiglia attraverso i secoli; e a volte c’erano soltanto elenchi di nomi, o brevi descrizioni di vite prive di eventi sensazionali, notizie di nascite e di morti e di migrazioni.
Quelle conversazioni erano ricordi piacevoli. E la luce dolce della biblioteca, l’odore delizioso del vecchio cuoio e della pergamena, delle candele e del fuoco. E Maharet accanto al camino, la bellissima indossatrice con gli occhi verdi protetti da occhiali scuri, che avvertiva Jesse che il lavoro avrebbe potuto assorbirla e tenerla lontana da cose migliori. Era la Grande Famiglia, ciò che contava, non la sua documentazione; era la vitalità d’ogni generazione, e la conoscenza e l’amore dei parenti. La documentazione si limitava a rendere tutto ciò possibile.
Jesse desiderava quel lavoro più di quanto avesse mai desiderato qualcosa. Sicuramente Maharet le avrebbe permesso di restare! Avrebbe trascorso anni in quella biblioteca, per scoprire finalmente le origini della famiglia.
Solo più tardi l’aveva visto come un mistero sorprendente, uno dei tanti di quell’estate. Solo più tardi tante piccole cose avrebbero ossessionato la sua mente.
Per esempio, Maharet e Mael non comparivano mai prima dell’imbrunire; e la spiegazione secondo la quale dormivano tutto il giorno non era proprio una spiegazione sufficiente. E dove dormivano? Era questo un altro interrogativo. Le loro stanze restavano vuote tutto il giorno, con le porte aperte, gli armadi traboccanti di indumenti esotici e vistosi. Al tramonto apparivano come se si materializzassero. Jesse alzava la testa, e Maharet era accanto al camino, truccata in modo impeccabile, vestita in modo sensazionale, e la collana e gli orecchini scintillavano nella luce spezzata. Mael, vestito come al solito di pelle scamosciata marrone, stava in silenzio accanto alla parete.
Ma quando Jesse chiedeva spiegazione dei loro strani orari, le risposte di Maharet erano convincenti. Erano pallidi, detestavano la luce del sole e restavano alzati fino a tardi. Era vero. Alle quattro del mattino discutevano ancora di politica o di storia, e da una prospettiva così grandiosa e bizzarra, chiamando le città con i nomi antichi e parlando a volte in una lingua sconosciuta che Jesse non riusciva a classificare né tanto meno a capire. Con il suo dono psichico, a volte sapeva cosa dicevano, ma quei suoni stranissimi la sconcertavano.