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E alcuni di loro certamente erano a conoscenza del Talamasca. Nel corso dei secoli, diversi membri dell’ordine erano scomparsi durante indagini di quel genere.

Jesse doveva leggere scrupolosamente i giornali. Il Talamasca aveva motivo di credere che al momento non vi fossero vampiri a New Orleans, altrimenti non vi avrebbero mandato Jesse. Ma da un momento all’altro potevano comparire Lestat, Armand o Louis. Se Jesse avesse letto un articolo che parlava di una morte sospetta, doveva lasciare la città e non farvi ritorno.

Jesse pensava che fosse tutto ridicolo. Neppure il mucchietto di notizie che parlava di morti misteriose l’impressionava o la spaventava. Dopotutto, poteva trattarsi di vittime d’un culto satanico. Ed erano tutte troppo umane.

Ma Jesse teneva a quell’incarico.

Mentre l’accompagnava all’aeroporto, David le aveva chiesto perché: «Se non riesce a credere veramente a ciò che le dico, perché vuole fare indagini sul libro?»

Lei aveva riflettuto prima di rispondere. «Nel romanzo c’è qualcosa di osceno. Fa apparire attraenti le vite di quegli esseri. In un primo momento non si nota: è un incubo dal quale non si può uscire. Poi, all’improvviso, ci si sente a proprio agio. Vien voglia di restare. Persino la tragedia di Claudia non costituisce un vero deterrente.»

«Quindi?»

«Voglio provare che è un’invenzione», aveva detto Jesse.

Per il Talamasca andava bene così, soprattutto perché l’aveva detto un’investigatrice esperta.

Ma durante il lungo volo per New Orleans, Jesse s’era resa conto che c’era qualcosa che non poteva dire a David. Lei stessa l’aveva compreso da poco. Intervista con il Vampiro le faceva tornare in mente la lontana estate con Maharet, anche se non sapeva perché. Aveva interrotto più volte la lettura per pensare a quell’estate. E aveva rammentato tante piccole cose. Aveva persino ripreso a sognare quei giorni. Non c’entrava affatto, si diceva. Eppure c’era un nesso; aveva a che fare con l’atmosfera del libro, persino la mentalità dei personaggi, la maniera in cui le cose sembravano stare in un certo modo mentre in realtà erano diverse. Ma Jesse non riusciva a capire. La sua ragione, come la sua memoria, era stranamente bloccata.

I primi giorni a New Orleans erano stati fra i più bizzarri della sua carriera di sensitiva.

La città aveva un’umida bellezza caraibica e una tenace atmosfera coloniale che l’avevano subito incantata. Eppure dovunque andasse, Jesse «sentiva» qualcosa. Sembrava che l’intera città fosse infestata. Le imponenti case che risalivano a prima della guerra di Secessione erano tetre e silenziose. Anche le vie del Quartiere Francese, affollate di turisti, avevano un’atmosfera sensuale e sinistra che la induceva di continuo ad abbandonare il percorso prestabilito o a fermarsi a lungo per sognare, seduta su una panchina in Jackson Square.

Non le andava di lasciare la città alle quattro. Il grande albergo di Baton Rouge offriva tutti i lussi americani, e a Jesse piaceva. Ma l’atmosfera pigra di New Orleans era indimenticabile. Ogni mattina si svegliava con la vaga sensazione di aver sognato i vampiri. E Maharet.

Poi, dopo quattro giorni di ricerche, fece una serie di scoperte che la spinsero a correre al telefono. C’era stato indiscutibilmente un Lestat de Lioncourt tra coloro che pagavano le tasse in Louisiana. Anzi, nel 1862 aveva preso possesso di una casa in Royal Street, una casa del suo socio in affari, Louis de Pointe du Lac, che a sua volta aveva sette diverse proprietà in Louisiana, e una era proprio la piantagione descritta in Intervista con il Vampiro. Jesse era rimasta sbalordita ed estasiata.

Ma c’erano anche altre scoperte. Adesso un certo Lestat de Lioncourt era proprietario di molte case in città. E la sua firma, che appariva in documenti datati 1895 e 1910, era identica alle firme del Settecento.

Ora, era meraviglioso. Jesse si divertiva immensamente.

Decise di fotografare le proprietà di Lestat. Due erano case nel Garden District, decisamente inabitabili e cadenti dietro i cancelli arrugginiti. Ma il resto, inclusa la casa di Royal Street, la stessa passata a Lestat nel 1862, era affittato a un’agenzia locale che effettuava i pagamenti a un procuratore legale di Parigi.

Jesse non resistette più. Telegrafò a David per chiedere una somma consistente. Doveva rilevare il contratto d’affitto, perché quella era sicuramente la casa abitata un tempo da Lestat, Louis e la piccola Claudia. Forse non erano vampiri… ma erano vissuti lì!

David inviò immediatamente il denaro, accompagnandolo con l’ordine di non avvicinarsi in nessun caso alle abitazioni in rovina. Jesse rispose che le aveva già esaminate: nessuno vi aveva messo piede da anni.

Quella che contava era la casa di Royal Street. Prima della fine della settimana, Jesse rilevò il contratto d’affìtto; i vecchi inquilini se ne andarono felici con le tasche piene di denaro. Il lunedì mattina Jesse entrò nell’appartamento deserto al primo piano.

Era deliziosamente cadente. I vecchi camini, le modanature, le porte, c’erano tutti. Jesse si armò di cacciavite e scalpello e si mise al lavoro. Louis aveva descritto un incendio nei salotti, un incendio che aveva ustionato Lestat. Bene, ne avrebbe trovato le tracce.

Dopo meno di un’ora scoprì il legname bruciato! E gli imbianchini, quando erano venuti a riparare i danni, avevano tappato i buchi con vecchi giornali datati 1862. Corrispondeva al racconto di Louis. Aveva ceduto la casa a Lestat, aveva deciso di partire per Parigi: poi c’era stato l’incendio, durante il quale Louis e Claudia erano fuggiti.

Naturalmente Jesse si diceva ancora scettica; ma i personaggi del romanzo stavano diventando reali. Il vecchio telefono nero nell’ingresso era stato staccato. Doveva uscire per chiamare David; e questo la irritava. Voleva raccontargli tutto, e subito.

Ma non uscì. Rimase seduta per ore in salotto, nel tepore del sole, e ascoltò gli scricchiolii dell’edificio. Una casa così vecchia non è mai silenziosa in un clima umido. Sembra viva. Non c’erano spettri: o almeno non poteva vederli. Tuttavia non si sentiva sola. Al contrario, c’era un tepore che l’avviluppava. All’improvviso qualcuno la scuoteva per svegliarla… No, naturalmente. Lì c’era soltanto lei. Un orologio suonava le quattro.

L’indomani prese a nolo un vaporizzatore per staccare la carta da parati e si mise al lavoro nelle altre stanze. Doveva arrivare alla tappezzeria originale. Era possibile datare i disegni, e comunque cercare qualcosa di particolare. Ma c’era un canarino che cantava poco lontano, forse in un altro appartamento o in un negozio, e il cinguettio la distraeva. Era bellissimo. Non dimenticare il canarino. Il canarino morirà se lo dimentichi. Si addormentò di nuovo.

Era già buio quando si svegliò. Sentì, molto vicina, la musica d’un clavicembalo. L’aveva ascoltata a lungo prima di aprire gli occhi. Mozart, suonato velocemente. Troppo velocemente, ma con quanta abilità. Un grande turbine di note d’un virtuosismo sbalorditivo. Alla fine si impose di alzarsi, accendere le luci e rimettere in funzione il vaporizzatore.

Il vaporizzatore era pesante e l’acqua calda le sgocciolava sul braccio. In ogni stanza spogliò un tratto di parete fino all’intonaco originale. Ma il rumore dell’apparecchio l’infastidiva. Sembrava che vi fossero voci… gente che rideva, qualcuno che parlava in francese in un bisbiglio incalzante, e un bambino che piangeva… o era una donna?

Spense il vaporizzatore. Niente. Era solo il rumore nell’appartamento vuoto ed echeggiante.

Si rimise al lavoro senza coscienza del tempo; non ricordava di non aver mangiato e non si rendeva conto di avere sonno. Continuò a spostare il vaporizzatore fino a che, all’improvviso, nella camera da letto centrale trovò quel che cercava… un affresco dipinto a mano su un muro intonacato.