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Per un momento si sentì troppo emozionata per muoversi. Poi riprese a lavorare freneticamente. Sì, era l’affresco della «foresta magica» che Lestat aveva commissionato per Claudia. Con rapidi movimenti del vaporizzatore ne scoprì altri tratti.

«Unicorni e uccelli dorati e alberi carichi di frutti lungo i ruscelli scintillanti.» Era esattamente come l’aveva descritto Louis. Alla fine mise allo scoperto gran parte dell’affresco che si snodava sulle quattro pareti. Indubbiamente era la stanza di Claudia. Le girava la testa. Si sentiva debole perché non aveva mangiato. Guardò l’orologio. L’una.

L’una! Era rimasta lì metà della notte. Doveva andarsene immediatamente. Per la prima volta in tanti anni era venuta meno alle regole dell’ordine!

Ma non riusciva a muoversi. Era così stanca, nonostante l’emozione. S’era seduta contro il camino di marmo, la luce della lampadina era tetra e le doleva la testa. Tuttavia continuava a guardare gli uccelli dorati, i fiori e gli alberi dipinti meravigliosamente. Il cielo era di un vermiglio intenso, tuttavia c’era la luna piena e non il sole, e una quantità di stelle minuscole. Alle stelle aderivano ancora frammenti di argento martellato.

A poco a poco notò un muro di pietra dipinto sullo sfondo in un angolo. C’era un castello, là dietro. Come doveva essere bello avviarsi nella foresta per raggiungerlo, varcare la porta di legno, entrare in un altro regno. Sentiva un canto che le risuonava nella mente, qualcosa che aveva quasi dimenticato, qualcosa che Maharet aveva cantato un tempo.

E all’improvviso vide che la porta era dipinta sopra una vera apertura nel muro.

Si tese. Vedeva i segni nell’intonaco. Sì, un’apertura quadrata che non aveva visto mentre azionava il vaporizzatore. S’inginocchiò per toccarla. Una porta di legno. Prese il cacciavite e cercò di forzarla. Inutile. Lavorò da una parte e dall’altra, ma riuscì solo a scalfire l’affresco.

Rimase accosciata a osservarla. Una porta dipinta sopra una porta di legno. E c’era un punto logoro sulla maniglia dipinta. Sì! Tese la mano e diede un colpetto su quel punto. La porta si spalancò. Era molto semplice.

Alzò la torcia elettrica. Uno scomparto rivestito di cedro. E c’erano diversi oggetti. Un libriccino rilegato di pelle bianca! Un rosario, sembrava, e una bambola, una vecchissima bambola di porcellana.

Per un momento non seppe decidersi a toccare gli oggetti. Era come profanare una tomba. E c’era un lieve sentore di profumo. Non sognava, vero? No, la testa le doleva troppo perché fosse un sogno. Infilò la mano nello scomparto ed estrasse la bambola.

Il corpo era rozzo secondo i criteri moderni, tuttavia gli arti di legno erano ben fatti. L’abito bianco e la fusciacca color lavanda stavano andando a pezzi. Ma la testa era incantevole, con i grandi occhi azzurri perfetti, la parrucca di capelli biondi ancora intatta.

«Claudia», mormorò.

La sua voce la rese consapevole del silenzio. Non c’era traffico a quell’ora. Solo le vecchie assi che scricchiolavano. E il palpitare di una lampada a petrolio su un tavolo. Poi il clavicembalo, qualcuno che adesso suonava Chopin, il Valzer di un Minuto, con la stessa abbagliante abilità che aveva già sentito. Rimase immobile a guardare la bambola. Avrebbe voluto spazzolarle i capelli, rammendare la fusciacca.

Ricordò gli avvenimenti fondamentali dell’Intervista con il Vampiro… Claudia uccisa a Parigi, colpita dalla luce mortale del sole sorgente in un pozzo d’aerazione da cui non poteva fuggire. Jesse trasalì, sentì il cuore batterle contro la gola. Claudia non c’era più mentre gli altri continuavano. Lestat, Louis, Armand.

Poi, con un sussulto, si accorse che nello scomparto c’erano altre cose. Prese il libro.

Un diario! Le pagine erano fragili, macchiate. Ma l’antiquata grafia in inchiostro seppia era ancora leggibile, soprattutto ora che le lampade a petrolio erano tutte accese, e nella stanza c’era una luce intima. Jesse sapeva leggere correttamente il francese. La prima annotazione portava la data del 21 settembre 1836.

È il mio regalo di compleanno da parte di Louis. Usalo come vuoi, ha detto. Ma forse mi piacerebbe copiare le poesie che ogni tanto colpiscono la mia fantasia, e leggergliele?

Non capisco bene cosa s’intenda per compleanno. Sono nata in questo mondo il 21 settembre, oppure è quel giorno in cui ho abbandonato tutte le cose umane per diventare quello che sono?

I signori miei padri esitano sempre a illuminare queste cose semplici. Si direbbe che sia di cattivo gusto indugiare su tali argomenti. Louis assume un’aria perplessa e poi avvilita prima di tornare al giornale della sera. E Lestat sorride e suona Mozart per me, quindi risponde con una scrollata di spalle: «È stato il giorno in cui sei nata a noi».

Naturalmente mi ha regalato come al solito una bambola che sembra una mia copia, e che come sempre porta un duplicato del mio vestito più nuovo. Le manda a prendere in Francia, quelle bambole, e tiene a farmelo sapere. E cosa dovrei farne? Dovrei giocarci come se fossi davvero una bambina?

«C’è un messaggio, in questo mio amato padre?» gli ho chiesto questa sera. «Significa che resterò per sempre una bambola?» Mi ha regalato trenta bambole nel corso degli anni, se non ricordo male. E ricordo benissimo. Ogni bambola è esattamente come le altre. Se le tenessi, non ci sarebbe più posto per me nella mia camera da letto. Ma non le tengo. Le brucio, prima o poi. Fracasso le facce di porcellana con l’attizzatoio. Guardo il fuoco che divora i capelli. Non posso dire che mi piaccia. Dopotutto le bambole sono belle e mi somigliano. Sì, è un gesto appropriato. La bambola se l’aspetta. E anch’io.

Adesso me ne ha portata un’altra, e sta sulla soglia della stanza a guardarmi, come se la mia domanda lo ferisse. E all’improvviso si oscura tanto in volto che io penso: Non può essere il mio Lestat.

Vorrei poterlo odiare. Vorrei poterli odiare entrambi. Ma mi sconfiggono, non con la loro forza bensì con la loro debolezza. Sono così affettuosi. E così piacevoli da guardare. Mon Dieu, le donne gli corrono dietro.

Mentre mi guardava esaminare la bambola che mi ha regalato, gli ho chiesto bruscamente:

«Ti piace ciò che vedi?»

«Non le vuoi più, vero?» ha mormorato lui.

«Tu le vorresti, se fossi me?» ho chiesto.

Si è oscurato ancora di più. Non l’avevo mai visto così. Un calore ardente gli ha soffuso la faccia, e ha battuto le ciglia per schiarirsi la vista. La vista perfetta. Mi ha lasciata ed è andato in salotto. L’ho seguito. Per la verità, non sopportavo di vederlo così, ma l’ho seguito.

«Ti piacerebbero», ho domandato, «se fossi me?»

Mi ha fissata come se gli facessi paura: eppure lui è un uomo alto sei piedi e io sono una bambina, la metà di lui.

«Per te sono bella?» ho chiesto.

Mi è passato accanto ed è uscito dalla porta sul fondo. Ma l’ho raggiunto. L’ho afferrato per la manica mentre stava accanto alla scala. «Rispondi» ho detto. «Guardami. Che cosa vedi?»

Era in uno stato spaventoso. Ho pensato che si sarebbe svincolato, avrebbe riso. Invece si è inginocchiato davanti a me e mi ha presa per le braccia. Mi ha baciata bruscamente sulla bocca. «Ti amo», ha mormorato. «Ti amo!» Come se fosse una maledizione scagliata contro di me. Poi mi ha detto questi versi:

Coprile il viso;
abbaglia i miei occhi;
è morta giovane.

È Webster, ne sono quasi certa. Una di quelle tragedie che piacciono tanto a Lestat. Chissà… a Louis piacerà questa poesia? Non vedo perché non dovrebbe. È breve ma molto carina.

Jesse richiuse il diario. Le tremava la mano. Si strinse al seno la bambola, si dondolò leggermente appoggiandosi alla parete dipinta.