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Jesse parlava poco o taceva. Non poteva spiegare che tutto ciò la faceva soffrire, le ricordava l’estate di tanto tempo prima quando era stata allontanata da altri segreti, altri misteri, altri documenti nascosti nelle cripte. Era la stessa storia. Aveva intravisto qualcosa dall’importanza inestimabile che le era stato sottratto.

Ormai non avrebbe più compreso ciò che aveva visto e vissuto. Doveva restare lì in silenzio con i suoi rimpianti. Perché non aveva risposto a quel telefono, perché non aveva parlato, non aveva ascoltato la voce?

E la bambina? Cosa voleva lo spirito della bambina? Il diario o la bambola? No, Jesse aveva avuto il compito di trovarli e portarli via. Eppure era fuggita di fronte allo spirito della bambina! Lei che aveva affrontato tante entità senza nome, e nelle stanze buie aveva parlato coraggiosamente a cose deboli e palpitanti quando gli altri ruggivano vinti dal panico, lei che confortava gli altri con la solita affermazione: questi esseri, qualunque cosa siano, non possono farci male!

Un’altra occasione, insisteva. Riesaminò tutto ciò che era accaduto. Doveva tornare in quell’appartamento di New Orleans. David e Aaron tacquero a lungo. Poi David si avvicinò e le cinse le spalle con un braccio.

«Jesse, mia cara», disse, «le vogliamo tutti bene. Ma soprattutto in questo campo non si possono violare le regole.»

La notte sognava Claudia. Una volta si svegliò alle quattro, andò alla finestra e guardò il parco, cercando di vedere oltre la luce fioca delle finestre del pianterreno. C’era una bambina, là fuori, una figuretta sotto gli alberi, con il mantello rosso e il cappuccio, una bambina che la guardava. Scese correndo le scale e si trovò sul prato umido e deserto mentre spuntava un mattino grigio e freddo.

In primavera la mandarono a New Delhi.

Doveva documentare le prove della reincarnazione, le segnalazioni di certi bambini indiani che affermavano di ricordare le loro vite anteriori. In quel campo un certo dottor lan Stevenson aveva fatto un lavoro molto promettente. E Jesse doveva intraprendere uno studio per conto del Talamasca, con la possibilità di produrre risultati altrettanto fruttuosi.

Due membri anziani dell’ordine l’attendevano a Delhi e l’accolsero amichevolmente nella vecchia casa britannica dove abitavano. Jesse trovò interessante il lavoro; e dopo gli choc iniziali e i disagi, si affezionò all’India. Prima della fine dell’anno era di nuovo felice… e si rendeva utile.

Accadde un’altra cosa, una piccolezza che tuttavia sembrava di buon auspicio. In una tasca della vecchia valigia, quella che le aveva regalato Maharet anni prima, trovò il braccialetto d’argento di Mael. Sì, era felice. Ma non dimenticava quanto era accaduto. In certe notti ricordava così nitidamente l’immagine di Claudia, che si alzava e accendeva tutte le luci. In altri momenti credeva di vedere intorno a sé, per le vie della città, strani esseri dalle facce bianche molto simili ai personaggi dell’Intervista con il Vampiro. Si sentiva spiata.

Poiché non poteva raccontare a Maharet quella strana avventura, le sue lettere diventarono ancora più frettolose e superficiali. Eppure Maharet era fedele come sempre. Quando qualcuno della famiglia veniva a Delhi, andava a far visita a Jesse. Si sforzavano di tenerla nell’ambito della famiglia. Le mandavano notizie dei matrimoni, delle nascite, dei funerali. La pregavano di andarli a trovare durante le vacanze. Matthew e Maria scrivevano dall’America e insistevano perché tornasse presto a casa. Sentivano molto la sua mancanza.

Jesse trascorse in India quattro anni felici. Documentò più di trecento casi che includevano prove sorprendenti della reincarnazione. Lavorò con alcuni dei migliori investigatori psichici che avesse mai conosciuto. E la sua attività era soddisfacente. Era molto diversa dalla caccia alle infestazioni che aveva fatto all’inizio.

Nell’autunno del quinto anno cedette alle insistenze di Matthew e Maria. Promise di tornare negli Stati Uniti per quattro settimane. La notizia li rese felici.

La riunione significò per Jesse più di quanto avesse previsto. Era piacevole essere di nuovo nel vecchio appartamento di New York. Amava le cene con i genitori adottivi, che non le facevano domande sul suo lavoro. Durante il giorno, s’incontrava a pranzo con i vecchi compagni di studio o faceva lunghe passeggiate solitàrie nell’affollato paesaggio urbano delle speranze, dei sogni e degli affanni della sua infanzia.

Due settimane dopo il ritorno, Jesse vide Il vampiro Lestat nella vetrina di una libreria. Per un momento pensò di aver sbagliato. Non era possibile. E invece era così. Il commesso le parlò dell’album discografico con lo stesso titolo e dell’imminente concerto a San Francisco. Jesse prese un biglietto prima di tornare a casa, nel negozio di dischi dove comprò l’album.

Per tutto il giorno, sola nella sua camera, Jesse lesse il libro. Era come se l’incubo di Intervista con il Vampiro fosse ritornato e lei non riuscisse a liberarsene. Eppure era stranamente affascinata da ogni parola. Sì, era tutto reale. E la vicenda si attorceva in modo particolare, risaliva al tempo della congrega romana di Santino, al rifugio isolano di Marius, e al bosco druidico di Mael. E a Coloro-che-devono-essere-conservati, vivi e tuttavia bianchi e duri come il marmo.

Ah, sì, aveva toccato quella pietra! Aveva guardato gli occhi di Mael e aveva sentito la stretta della mano di Santino. Aveva visto il quadro dipinto da Marius e custodito nella cripta del Talamasca!

Quando chiudeva gli occhi per addormentarsi, vedeva Maharet sul balcone di Sonoma. La luna era alta sulle cime delle sequoie. E la notte tiepida sembrava inspiegabilmente piena di promesse e di pericoli. Eric e Mael erano là. E c’erano altri che non aveva mai visto se non nelle pagine di Lestat. Appartenevano alla stessa tribù: occhi incandescenti, capelli luminosi, la pelle di una sostanza splendente e priva di pori. Sul braccialetto argenteo aveva rintracciato mille volte i vecchi simboli celtici degli dèi e delle dee ai quali i druidi parlavano nelle foreste, simili a quelle in cui un tempo Marius era stato fatto prigioniero. Di quanti anelli di congiunzione aveva bisogno, tra quelle invenzioni esoteriche e l’estate indimenticabile?

Ancora uno, indubbiamente. Il vampiro Lestat in persona… a San Francisco, dove l’avrebbe visto e l’avrebbe toccato… quello sarebbe stato l’anello finale. E allora, in quel momento, avrebbe conosciuto la risposta.

L’orologio ticchettava. La sua devozione al Talamasca moriva nel silenzio tiepido. Non poteva parlarne con loro. Ed era una tragedia, perché avrebbero provato un interesse grande e privo di egoismo. Non avrebbero dubitato.

Il pomeriggio perduto. Era di nuovo là. Scendeva nella cantina di Maharet per la scala a chiocciola. Non poteva spingere la porta? Ecco. Vedi ciò che vedesti allora. Qualcosa che a prima vista non era orribile… coloro che conosceva e amava addormentati nel buio, addormentati. Mael, però, giace sul pavimento freddo come se fosse morto, e Maharet è seduta contro la parete, rigida come una statua. Ha gli occhi aperti!

Si svegliò con un sussulto, con il viso accaldato. La stanza era buia e fredda. «Miriam», disse a voce alta. A poco a poco il panico si placò. S’era avvicinata, spaventatissima. Aveva toccato Maharet. Fredda, pietrificata. E Mael, morto! Il resto era tenebra.

New York. Era a letto con il libro fra le mani. E Miriam non venne. Si alzò e andò alla finestra.