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Là di fronte, nella tetraggine pomeridiana, sorgeva la casa fantasma di Stanford White. La fissò fino a quando l’immagine svanì gradualmente.

Il vampiro Lestat le sorrideva dalla copertina dell’album appoggiato sul comò.

Chiuse gli occhi. Immaginò la tragica coppia, Coloro-che-devono-essere-conservati. Il re e la regina indistruttibili sul trono egizio, coloro per i quali il vampiro Lestat cantava i suoi inni dalla radio e dai jukebox e dai walkman. Vedeva la faccia bianca di Maharet che splendeva nell’ombra. Alabastro. La pietra sempre satura di luce.

L’oscurità che scendeva all’improvviso come avviene nel tardo autunno, il pomeriggio tetro che lasciava il posto allo splendore della sera. Il traffico rombava sulla strada affollata, echeggiava tra i palazzi. Era mai più rumoroso di quanto lo fosse nelle vie di New York? Appoggiò la fronte al vetro. La casa di Stanford White era visibile con la coda dell’occhio. E all’interno c’era qualcuno che si muoveva.

Jesse lasciò New York il pomeriggio seguente con la vecchia decapottabile di Matt. Gli pagò la macchina, nonostante le sue obiezioni, perché sapeva che non gliel’avrebbe mai riportata. Poi li abbracciò e, più casualmente che poté, disse loro tutte le cose semplici e sincere che aveva sempre desiderato dire.

Quella mattina aveva mandato un espresso a Maharet, e i due romanzi sui «vampiri». Le aveva spiegato che aveva lasciato il Talamasca, che sarebbe andata al concerto del vampiro Lestat, e che desiderava fermarsi nel complesso di Sonoma. Doveva vedere Lestat, era fondamentale. La sua vecchia chiave andava ancora bene per aprire la serratura della casa di Sonoma? Maharet le avrebbe permesso di alloggiarvi?

Durante la prima notte, a Pittsburgh, sognò le gemelle. Vide le due donne inginocchiate davanti all’altare. Vide il corpo cotto, pronto per venire divorato. Vide una gemella sollevare il piatto con il cuore, l’altra quello con il cervello. Poi i soldati, il sacrilegio.

Quando arrivò a Salt Lake City aveva sognato le gemelle per tre volte. Le aveva viste violentare in una scena confusa e terrificante. Aveva visto una creatura nata da una delle sorelle. Aveva visto la creaturina nascosta, quando le gemelle venivano nuovamente fatte prigioniere. Erano state uccise? Non lo sapeva. I capelli rossi. Se avesse potuto vedere i loro volti, i loro occhi! I capelli rossi la tormentavano.

Solo quando chiamò David da un telefono lungo la strada seppe che anche altri avevano fatto gli stessi sogni… sensitivi e medium di tutto il mondo. Ogni volta era stato stabilito un nesso con il vampiro Lestat. David chiese a Jesse di tornare a casa immediatamente.

Jesse cercò di spiegare, con gentilezza. Intendeva andare al concerto per vedere con i suoi occhi. Doveva farlo… C’erano altre cose da dire, ma era troppo tardi. David doveva sforzarsi di perdonarla.

«Non lo faccia», disse David. «Ciò che sta succedendo non è una cosa da documentare per gli archivi. Deve tornare, Jessica. La verità è che qui abbiamo bisogno di lei. Un bisogno disperato. È impensabile che tenti questo ‘avvistamento’ da sola, mi dia ascolto!»

«Non posso tornare. Ho sempre voluto bene a tutti voi. Ma mi dica: è l’ultima domanda che le farò. Come mai non può venire personalmente?»

«Jesse, lei non mi sta ascoltando.»

«David, la verità. Mi dica la verità. Ha mai creduto davvero in loro? Oppure è sempre stata una questione di oggetti e dossier e quadri custoditi nelle cripte, cose che può vedere e toccare? Lei sa cosa sto dicendo, David. Pensi al prete cattolico quando pronuncia le parole della consacrazione nella messa. Crede davvero che Cristo sia sull’altare? Oppure è solo una questione di calici e di vino sacramentale e di cori?»

Ah, come aveva mentito per nascondergli tante cose proprio mentre lo incalzava. Ma la risposta non l’aveva delusa.

«Jesse, ha frainteso tutto. So cosa sono quegli esseri. L’ho sempre saputo. Non ho mai avuto il minimo dubbio. E proprio per questo nessuna forza al mondo potrebbe indurmi ad assistere al concerto. È lei, quella che non sa accettare la verità. Deve vedere per credere! Jesse, il pericolo è autentico. Lestat è esattamente ciò che afferma di essere, e vi saranno altri ancora più pericolosi, altri che potranno riconoscerla per ciò che è e cercheranno di farle male. Se ne renda conto e faccia quel che le dico. Torni subito a casa.»

Era un momento doloroso. David si sforzava di convincerla, e lei si limitava a dirgli addio. David disse altre cose, promise di raccontarle «l’intera storia», di aprirle gli archivi, e ripetè che tutti avevano bisogno di lei, per quella vicenda.

Ma la mente di Jesse divagava. Non poteva dirgli «l’intera storia»: e questo era doloroso. Il sonno e il sogno la minacciavano ancora quando posò il ricevitore. Aveva visto i piatti, il corpo sull’altare. La loro madre. Sì, la loro madre. Era tempo di dormire. Il sogno voleva entrare. E poi, c’era da proseguire il viaggio.

Autostrada ioi. Le sette e trentacinque della sera. Mancavano venticinque minuti al concerto.

Aveva appena passato il valico sul Waldo Grade ed era apparso il vecchio miracolo… il grande skyline di San Francisco che sorgeva sulle colline, al di là della lucente distesa nera dell’acqua. Le torri del Golden Gate giganteggiavano davanti a lei, il vento freddo della baia le gelava le mani nude strette convulsamente sul volante.

Il vampiro Lestat sarebbe stato puntuale? La faceva ridere, pensare a un immortale che doveva presentarsi in orario. Bene, lei sarebbe stata puntuale: il viaggio era quasi terminato.

Era svanita la sofferenza per David e Aaron e tutti coloro che aveva amato. Non c’era sofferenza neppure per la Grande Famiglia, soltanto gratitudine. Eppure, forse David aveva ragione. Forse lei non aveva accettato la fredda, spaventosa verità, era scivolata nel regno dei ricordi e dei fantasmi, delle creature pallide che erano la sostanza dei sogni e della follia.

Si stava incamminando verso la casa fantasma di Stanford White, e non aveva nessuna importanza, ormai, chi vi abitava. Sarebbe stata la benvenuta. Avevano cercato di dirglielo fin da quando le riusciva di ricordare.

PARTE SECONDA

LA VIGILIA DI OGNISSANTI

Ben poco merita il nostro tempo più del comprendere il talento della Sostanza. Un’ape, un’ape viva, contro il vetro della finestra, mentre tenta di uscire, spacciata, non può comprendere.
Stan Rice
poesia senza titolo da
«Pig’s Progress» (1976)

Daniel

Un lungo atrio curvo; la folla era come un liquido che sciabordava contro le pareti incolori. Adolescenti in costumi da Halloween entravano dalla porta. Si formavano le code per acquistare parrucche gialle, mantelli di raso nero, «Zanne a cinquanta cent!», programmi in carta patinata. Volti pallidi e bianchi dovunque guardasse. Occhi e bocche dipinti. E qua e là gruppi di uomini e di donne scrupolosamente travestiti con abiti autentici dello scorso secolo, con trucco e pettinature perfetti.

Una donna abbigliata di velluto lanciò nell’aria una gran pioggia di boccioli di rosa. Il sangue dipinto le scorreva sulle guance cineree. Risate.

Sentiva l’odore del cerone e della birra, ormai aliena ai suoi sensi, disgustosa. I cuori che battevano tutto intorno a lui creavano un tuono sordo e delizioso contro i timpani delicati dei suoi orecchi.

Dovette ridere rumorosamente, perché sentì la stretta brusca delle dita di Armand sul braccio. «Daniel!»

«Scusami, capo», mormorò. Nessuno gli badava, comunque: tutti i mortali presenti erano travestiti; e chi erano Armand e Daniel se non due pallidi giovani anonimi tra la folla, con i maglioni e i jeans neri, i capelli seminascosti sotto i berretti di lana blu da marinaio, gli occhi dietro le lenti scure?