Un fremito lo scosse. Era un senso di freddo, tuttavia per un istante gli parve di vedere una giungla, un luogo verde e fetido, pieno di calore, malsano e soffocante. Poi la visione sparì senza spiegazioni, come tanti segnali e messaggi improvvisi che gli pervenivano. Molto tempo prima aveva imparato a escludere il flusso incessante di voci e di immagini che i poteri mentali gli permettevano di captare; e tuttavia ogni tanto gli giungeva qualcosa di violento e d’inaspettato, come un grido acutissimo.
Comunque, era rimasto abbastanza a lungo in quella città. Non sapeva ancora che sarebbe intervenuto, comunque e qualunque cosa accadesse! Era incollerito per l’improvviso calore dei suoi sentimenti. Voleva tornare a casa. Per troppo tempo era rimasto lontano da Coloro-che-devono-essere-conservati.
Ma amava osservare la dinamica folla umana, la parata goffa del traffico. Persino gli odori velenosi della città non lo infastidivano. Non erano peggio del puzzo dell’antica Roma o di Antiochia o di Atene… dove i mucchi dei rifiuti umani erano coperti di mosche dovunque si guardasse, e l’aria era inevitabilmente satura del lezzo delle malattie e della fame. No, gli piacevano le città della California, pulite e dai colori pastello. Avrebbe gradito indugiare per sempre fra i loro abitanti dagli occhi così limpidi.
Ma doveva tornare a casa. Il concerto avrebbe avuto luogo tra diverse sere, e allora avrebbe riveduto Lestat, se così avesse deciso… Era delizioso non sapere esattamente cosa avrebbe fatto, come pensavano invece di saperlo altri, altri che neppure credevano in lui!
Attraversò Castro Street e si avviò a passo svelto in Market Street. Il vento s’era placato e l’aria era quasi tiepida. Continuò con quell’andatura sostenuta, fischiettando tra sé come faceva spesso Louis. Si sentiva piacevolmente umano. Poi si fermò davanti a un negozio di radio e televisori. Lestat cantava in ogni schermo, grande o piccolo che fosse.
Rise tra sé del grandioso concerto di gesti e movimenti. L’audio era spento, sepolto in minuscoli semi splendenti negli apparecchi. Avrebbe dovuto cercare per captarlo. Ma non era già affascinante limitarsi a osservare in uno spietato silenzio le smanie del principino dai capelli biondi?
La telecamera indietreggiò per inquadrare la figura intera di Lestat che suonava il violino come sospeso nel vuoto. Ogni tanto una tenebra stellare l’avvolgeva. Poi all’improvviso si schiusero due battenti… era una riproduzione esatta del sacrario di Coloro-che-devono-essere-conservati! E c’erano… c’erano Akasha ed Enkil, o meglio due attori truccati per sostenere quelle parti, egizi dalla pelle bianca, i capelli neri lunghi, come strisce di seta, e i gioielli scintillanti.
Era ovvio. Perché non aveva intuito che Lestat si sarebbe spinto fino a quell’estremo volgare e tentatore? Si protese, per captare la trasmissione del suono. Udì la voce di Lestat, un po’ più forte del violino.
Il suonatore di violino chiuse gli occhi e sprofondò nella musica. Lentamente, Akasha si alzò dal trono. Il violino cadde dalle mani di Lestat quando la vide: come una danzatrice, lei lo cinse con le braccia, l’attirò a sé, si chinò per donargli il suo sangue mentre gli faceva premere i denti contro la propria gola.
Era meglio di quanto avesse immaginato… e molto ingegnoso. La figura di Enkil si destò, si alzò e prese a camminare come un fantoccio meccanico. Avanzò per riprendere la sua regina. Lestat fu scagliato sul pavimento del sacrario. Il video terminò. Il salvataggio da parte di Marius non era incluso.
«Ah, dunque non sono destinato a essere una celebrità televisiva», mormorò con un vago sorriso. Si avvicinò all’entrata del negozio buio.
Una giovane donna attendeva per farlo entrare. Aveva in mano la cassetta di plastica nera.
«Tutti e dodici», disse. Aveva una bella carnagione scura e grandi occhi castani e sonnolenti. Il cerchio d’argento che le cingeva il polso brillava nella luce. Gli sembrò affascinante. La ragazza prese il denaro senza contarlo. «Lo trasmettono su una dozzina di canali. Per la verità li ho seguiti tutti. Sono finiti ieri pomeriggio.»
«Mi ha servito molto bene», rispose l’uomo. «Grazie.» E tirò fuori un altro rotolo di biglietti di banca.
«Non è stato niente d’importante.» La ragazza non voleva accettare dell’altro denaro.
Lo prenderai.
La ragazza lo prese con una scrollata di spalle e lo mise in tasca.
Niente d’importante. Gli piacevano quelle espressioni moderne ed eloquenti. Amava quel movimento dei seni, quando lei aveva alzato le spalle, e l’agile guizzo dei fianchi sotto la ruvida stoffa jeans che la faceva sembrare ancora più fragile. Un fiore incandescente. E quando lei aprì la porta, le toccò il nido morbido di capelli bruni. Era impensabile nutrirsi di qualcuna che ti aveva servito… e poi, così innocente! Non l’avrebbe fatto. Tuttavia la fece voltare, e le insinuò tra i capelli le dita inguantate per sostenerle la testa.
«Un piccolo bacio, mia cara.»
La ragazza chiuse gli occhi. I denti dell’uomo trapassarono istantaneamente l’arteria e la lingua lambì il sangue. Solo un assaggio. Un minuscolo lampo di calore si consumò nel cuore in un secondo. Poi si tirò indietro, con le labbra posate sulla gola delicata. Sentiva il palpito del suo sangue. La bramosia di berlo fino in fondo era quasi irresistibile. Peccato ed espiazione. La lasciò. Le assestò i riccioli morbidi e la guardò negli occhi annebbiati.
Non ricordare.
«Arnvederci», disse lei con un sorriso.
Rimase immobile sul marciapiedi deserto. E la sete, cupa e ignorata, si spense lentamente. Guardò la custodia di cartone della videocassetta.
«Una dozzina di canali», aveva detto la ragazza. «Li ho seguiti tutti.» Se era così, gli esseri affidati alle sue cure avevano già visto inevitabilmente Lestat sul grande schermo piazzato nel sacrario di fronte a loro. Molto tempo prima aveva installato l’antenna del satellite sul pendio sopra il tetto per captare le trasmissioni di tutto il mondo. Un piccolo congegno computerizzato cambiava il canale ogni ora. Per anni, avevano osservato impassibili mentre le immagini e i colori scorrevano davanti ai loro occhi senza vita. C’era stato un guizzo lievissimo quando avevano udito la voce di Lestat o avevano visto le loro immagini? O quando avevano udito i loro nomi cantati come in un inno?
Bene, presto l’avrebbe scoperto. Avrebbe mostrato loro la videocassetta. Avrebbe studiato i loro visi lucidi e immoti in cerca di qualcosa, qualunque cosa che non fosse soltanto il riflesso della luce.
«Ah, Marius, tu non disperi mai, vero? Non sei migliore di Lestat, con i tuoi sogni assurdi.»
Era mezzanotte, quando arrivò a casa.
Chiuse la porta d’acciaio sotto la neve turbinante. Rimase immobile per un momento e lasciò che l’aria calda lo avvolgesse. La tormenta che aveva attraversato gli aveva lacerato il viso, le orecchie e persino le dita guantate. Il tepore era così piacevole.
Ascoltò nel silenzio il suono familiare dei generatori giganteschi e la lieve pulsazione elettronica del televisore nel sacrario, molte decine di metri sotto di lui. Era Lestat che cantava? Sì. Senza dubbio erano le ultime, lugubri parole di un’altra canzone.
Si sfilò piano piano i guanti. Si tolse il copricapo e si passò le dita fra i capelli. Studiò il grande atrio e il salotto adiacente, cercando di scoprire se qualcuno era stato lì.