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Ormai l’auditorium era pieno e chiuso. All’esterno i ragazzi urlavano e battevano sulle porte. Khayman sentiva il ronzio delle radio della polizia.

Il vampiro Lestat e i suoi spiavano la sala attraverso i fori del grande sipario.

Lestat abbracciò il suo compagno Louis, e si baciarono sulla bocca mentre i musicisti mortali li stringevano entrambi.

Khayman indugiò per percepire la passione della folla: l’aria ne era elettrizzata.

Jessica aveva appoggiato le braccia sul bordo del palcoscenico, e teneva il mento sul dorso delle mani. Gli uomini dietro di lei, esseri muscolosi vestiti di lucida pelle nera, la spingevano brutalmente con ebbra esuberanza, ma non riuscivano a spostarla.

Non avrebbe potuto farlo neppure Mael, se avesse tentato.

E qualcosa divenne chiaro per Khayman all’improvviso, mentre la guardava. Era una parola, Talamasca. La donna apparteneva all’ordine, era una di loro.

Non era possibile, pensò di nuovo, poi rise silenziosamente della propria ingenuità. Era una notte piena di grandi choc, no? Eppure sembrava incredibile che il Talamasca fosse sopravvissuto da quando l’aveva conosciuto secoli prima, quando aveva giocato con i suoi membri e li aveva tormentati, e poi aveva voltato loro le spalle, impietosito dalla loro combinazione fatale d’ingenuità e di ignoranza.

Ah, il ricordo era troppo orribile. Era meglio lasciare che le sue vite passate scivolassero nell’oblio. Vedeva le facce di quei vagabondi, i monaci laici del Talamasca, che l’avevano inseguito goffamente attraverso l’Europa, avevano annotato gli avvistamenti in grandi volumi rilegati in pelle, con le penne d’oca che graffiavano i fogli fino a notte alta. Il suo nome era stato Benjamin, in quel breve intervallo di coscienza, e Benjamin il Diavolo l’avevano chiamato nell’elegante scrittura latina quando inviavano ai loro superiori ad Amsterdam epistole di pergamena dai grossi sigilli di cera.

Per lui era stato un gioco rubare le lettere e aggiungervi le sue annotazioni, spaventarli, e uscire da sotto i loro letti, la notte, afferrarli per la gola e scuoterli. Era stato divertente… e che cosa non lo era? Quando il divertimento era finito, aveva quasi perduto di nuovo la memoria.

Ma li aveva amati: non erano esorcisti, né preti cacciatori di streghe, né incantatori che speravano di incatenare e dominare il suo potere. Una volta aveva addirittura pensato che quando fosse venuto il momento di dormire avrebbe scelto le cripte sotto la loro Casa Madre. Nonostante la loro curiosità impicciona, non l’avrebbero mai tradito.

E pensare che l’ordine era sopravvissuto con la tenacia della Chiesa di Roma, e che quella graziosa mortale dal braccialetto lucente, cara a Maharet e a Mael, apparteneva alla loro specie. Non era strano che si fosse fatta largo fino alla prima fila, come se fosse arrivata ai piedi dell’altare.

Khayman si avvicinò a Mael, ma si fermò a qualche passo di distanza mentre la folla passava incessante davanti a loro. Lo fece per rispetto all’apprensione di Mael e alla vergogna che provava perché aveva paura. Fu Mael ad avvicinarsi e a fermarsi a fianco di Khayman.

La folla irrequieta passava loro accanto come se fossero un muro. Mael si tese verso Khayman, il che era a suo modo un saluto, una manifestazione di fiducia. Girò gli occhi sulla sala dove non c’erano più posti vuoti. La platea era un mosaico di colori, di capelli lucidi, di pugni levati. Poi tese la mano e toccò Khayman come se non riuscisse a trattenersi. Con la punta delle dita toccò il dorso della mano sinistra di Khayman. E Khayman restò immobile per permettere quella piccola esplorazione.

Quante volte Khayman aveva visto quel gesto fra immortali: il più giovane accertava la consistenza e la durezza della carne del più anziano. Non c’era stato anche un santo cristiano che aveva messo la mano nelle piaghe di Cristo perché non gli era bastato vederle? Questa similitudine terrena fece sorridere Khayman. Erano come due cani feroci che si studiavano a vicenda.

Molto più in basso, Armand rimase impassibile e non staccò gli occhi da loro. Sicuramente vide l’occhiata sprezzante di Mael, ma non reagì.

Khayman si voltò, abbracciò Mael e gli sorrise. Mael, tuttavia, si spaventò e Khayman provò il peso della delusione. Si scostò educatamente e per un momento rimase dolorosamente confuso. Guardò Armand, il bell’Armand che sosteneva il suo sguardo con totale passività. Ma era venuto il momento di dire ciò che doveva dire.

«Devi rendere più forte il tuo scudo, amico mio», spiegò gentilmente a Mael. «Non permettere che il tuo amore per quella ragazza ti faccia scoprire. La ragazza sarà al sicuro dalla nostra sovrana solo se reprimi il pensiero delle sue origini e della sua protettrice. Quel nome è anatema per la regina. Lo è sempre stato.»

«E dov’è la regina?» chiese Mael. La paura lo riassaliva, insieme alla collera che gli era necessaria per combatterla.

«È vicina.»

«Sì, ma dove?»

«Non sono in grado di dirlo. Ha dato fuoco alla loro taverna. Dà la caccia ai pochi vagabondi che non sono venuti qui. Procede lentamente. E io l’ho saputo tramite le menti delle sue vittime.»

Khayman lo vide rabbrividire. Vide in lui cambiamenti sottili che tradivano una collera sempre crescente. Bene. La paura si consumava nel calore della rabbia. Ma quello era un essere fondamentalmente litigioso. La sua mente non stabiliva distinzioni sofisticate.

«E perché mi dai questo avvertimento», chiese Mael, «quando lei può udire ogni parola che ci scambiamo?»

«Non credo che lo possa», rispose con calma Khayman. «Io appartengo alla Prima Stirpe, amico. Udire gli altri bevitori di sangue come udiamo i mortali… è una maledizione che appartiene solo ai lontani cugini. Non potrei leggerle nella mente neppure se fosse qui; e la mia le è inaccessibile, puoi starne certo. Era così per tutta la nostra specie durante le prime generazioni.»

Il gigante biondo era chiaramente affascinato. Dunque Maharet non poteva udire la Madre? Questo Maharet non l’aveva ammesso.

«No», disse Khayman. «E la Madre può sapere di lei solo tramite i tuoi pensieri, perciò proteggili. Ora parlami con voce umana, perché questa città è una selva di tali voci.»

Mael rifletté aggrottando la fronte. Guardò Khayman come se intendesse assalirlo.

«E questo la sconfiggerà?»

«Ricorda», disse Khayman, «che l’eccesso è il contrario dell’essenzialità.» Tornò a guardare Armand. «Colei che ode una moltitudine di voci può non udire una simile voce. E colei che intende ascoltarne una in particolare deve escludere le altre. Sei abbastanza vecchio per conoscere il trucco.»

Mael non rispose a voce alta. Ma era chiaro che comprendeva. Il dono della telepatia era sempre stato una maledizione anche per lui, sia che ad assediarlo fossero le voci dei bevitori di sangue o degli umani.

Khayman annuì. Il dono della telepatia. Erano belle parole per descrivere la follia che s’era impadronita di lui tanti eoni prima, dopo gli anni d’ascolto, gli anni in cui era rimasto a giacere immobile, coperto di polvere nei recessi profondi d’una tomba egizia dimenticata, e aveva ascoltato il pianto del mondo, senza essere conscio di se stesso e delle proprie condizioni.

«È precisamente ciò che intendo, amico mio», disse. «E per duemila anni hai lottato contro le voci mentre è possibile che la nostra regina ne sia stata sommersa. Sembra che il vampiro Lestat abbia gridato più forte di questo chiasso; per così dire, ha schioccato le dita all’angolo del suo occhio e ha attirato la sua attenzione. Ma non sopravvalutare l’essere che è rimasto immobile per tanto tempo. Non è utile farlo.»

Quelle idee sorpresero Maeclass="underline" ma ne comprendeva la logica. Armand, intanto, restava attento.

«Non può fare tutto», disse Khayman. «Lo sappia o no. Si è sempre protesa verso le stelle e poi se ne è ritratta come se ne avesse orrore.»