«Come?» disse Mael. Si avvicinò, emozionato. «Com’è veramente?» mormorò.
«Era piena di sogni e di grandi ideali. Era come Lestat.» Khayman scrollò le spalle. «Il biondo che vorrebbe essere buono e compiere il bene e attirare a sé i devoti bisognosi.»
Mael sorrise, freddamente, cinicamente.
«Ma in nome dell’inferno, cosa intende fare la regina?» chiese. «Dunque lui l’ha destata con le sue canzoni abominevoli. Perché lei ci annienta?»
«Uno scopo c’è, puoi esserne certo. Per la nostra regina deve esserci uno scopo. Non saprebbe fare la più piccola delle cose senza uno scopo grandioso. E devi sapere che in realtà non cambiamo con il passare del tempo; siamo come fiori che si schiudono; ci limitiamo a diventare più simili a noi stessi.» Khayman guardò di nuovo Armand. «In quanto al suo scopo, posso soltanto fare qualche ipotesi.»
«Sì, dimmi.»
«Il concerto avrà luogo perché lo vuole Lestat. E quando sarà finito, la regina sterminerà altri della nostra specie. Ma ne lascerà alcuni che serviranno al suo scopo, forse come testimoni.»
Khayman guardava Armand. Il viso privo d’espressione irradiava saggezza, mentre quello tormentato e stanco di Mael non la rivelava. E chi poteva dire quale dei due comprendeva di più? Mael proruppe in una breve risata amara.
«Testimoni?» disse Mael. «Non credo. La ritengo più rozza. Risparmia coloro che Lestat ama: è molto semplice.»
Khayman non aveva pensato a quella possibilità.
«Ah, sì, rifletti», disse Mael nello stesso inglese dalla pronuncia secca. «Louis, il compagno di Lestat. Non è vivo? E Gabrielle, la madre del demonio, è vicina e attende di incontrarsi con il figlio non appena sarà opportuno. E Armand, quello laggiù che stai guardando… sembra che Lestat voglia rivederlo e perciò è vivo; e il reietto che sta con lui, quello che ha pubblicato il libro maledetto e che gli altri farebbero a pezzi se immaginassero…»
«No, c’è qualcosa di più. Deve esserci», disse Khayman. «Vi sono alcuni di noi che la regina non può uccidere. E coloro che ora stanno andando da Marius… Lestat non sa nulla di loro, se non i nomi.»
Il volto di Mael cambiò leggermente, arrossì. I suoi occhi si socchiusero. Per Khayman era chiaro che Mael avrebbe voluto raggiungere Marius, se avesse potuto. Sarebbe andato quella notte stessa, se Maharet fosse venuta a proteggere Jessica. Ora cercava di bandire il nome di Maharet dai suoi pensieri. Aveva paura di lei.
«Ah, sì, tu cerchi di nascondere ciò che sai», disse Khayman. «Ed è quanto mi devi rivelare.»
«Ma non posso», disse Mael. Il muro s’era innalzato, impenetrabile. «A me non vengono date risposte ma soltanto ordini, amico mio. E la mia missione è sopravvivere a questa notte e portar via da qui, sana e salva, colei che mi è stata affidata.»
Khayman avrebbe voluto insistere, chiedere. Ma non lo fece. Aveva percepito un sottile cambiamento nell’atmosfera, un cambiamento così insignificante e tuttavia così puro che non poteva chiamarlo movimento o suono.
Lei stava per giungere. Si avvicinava all’auditorium. Khayman si sentì allontanare dal proprio corpo per ascoltare: sì, era lei. Tutti i suoni della notte si levavano per confonderlo, tuttavia lo captò: un suono sordo e irriducibile che lei non poteva velare, il suono del suo respiro, del battito del suo cuore, di una forza che si muoveva nello spazio a una velocità immane e innaturale, e causava un tumulto inevitabile tra il visibile e l’invisibile.
Mael lo sentì, e lo sentì anche Armand. Persino il giovane a fianco di Armand l’udì, anche se molti altri giovani non lo percepirono. Persino alcuni dei mortali più sensibili parevano avvertirlo ed erano turbati.
«Devo andare, amico», disse Khayman. «Ricorda il mio consiglio.» Per il momento era impossibile dire altro.
Lei era vicinissima. Senza dubbio scrutava e ascoltava.
Khayman provò il primo impulso irresistibile di vederla, di scrutare le menti delle anime infelici che, là fuori nella notte, potevano averla veduta.
«Addio, amico», disse. «Non è bene per me starti vicino.»
Mael lo guardò confuso, e più in basso Armand accostò a sé Daniel e si avviò verso il margine della folla.
All’improvviso il buio scese nell’auditorium e per una frazione di secondo Khayman pensò che fosse la magia della regina e che stesse per compiersi un giudizio vendicativo e grottesco.
Ma i giovani mortali intorno a lui conoscevano il rituale. Stava per incominciare il concerto. Si scatenò una tempesta di grida e di acclamazioni e di piedi battuti sul pavimento. Divenne un grande ruggito collettivo. Si sentiva tremare l’auditorium.
Apparvero fiamme minuscole, quando i mortali accesero i fiammiferi e gli accendini. E un’illuminazione sonnolenta rivelò di nuovo le migliaia e migliaia di forme in movimento. Le urla erano un coro che l’attorniava.
«Non sono un vigliacco», bisbigliò all’improvviso Mael, come se non potesse restare in silenzio. Afferrò il braccio di Khayman, quindi lo lasciò come se la consistenza lo ripugnasse.
«Lo so», disse Khayman.
«Aiutami. Aiuta Jessica.»
«Non pronunciare più il suo nome. Stalle lontano come ti ho detto. Sei di nuovo vinto, druido. Ricordi? È il momento di combattere con l’astuzia, non con la rabbia. Rimani con il gregge dei mortali. Ti aiuterò se e quando potrò.»
C’erano tante altre cose che desiderava dire! Rivelami dov’è Maharet! Ma ormai era troppo tardi. Si voltò e si avviò a passo svelto lungo la corsia sino a quando arrivò a un punto al di sopra di una lunga scala di cemento.
Sotto di lui, sul palcoscenico buio, apparvero i musicisti mortali, che correvano tra cavi e altoparlanti per prendere gli strumenti dal pavimento.
Il vampiro Lestat, avvolto nel mantello nero, oltrepassò il sipario e si portò nella parte anteriore del palcoscenico. Si fermò a meno di un metro da Jesse con il microfono in mano.
Il pubblico era in estasi. Applaudiva, fischiava, ululava: Khayman non aveva mai udito un simile frastuono. Rise involontariamente di quella stupida frenesia, della minuscola figura sorridente che se ne entusiasmava e rideva come rideva Khayman.
Poi in un grande lampo bianco la luce inondò il palcoscenico. Khayman guardava non già le minuscole figure che si pavoneggiavano, ma il gigantesco teleschermo che saliva dietro di loro fino al tetto. L’immagine vivente del vampiro Lestat, alta nove metri, sfolgorava davanti a Khayman. L’essere sorrise: alzò le braccia e scosse la criniera bionda, rovesciò all’indietro la testa e ululò.
La folla era in piedi, delirante; l’intero edifìcio rombava, ma era l’ululato che riempiva tutti gli orecchi. La voce potente del vampiro Lestat sovrastava ogni altro suono nell’auditorium.
Khayman chiuse gli occhi. Nel cuore del grido mostruoso del vampiro Lestat, si mise di nuovo in ascolto cercando il suono della Madre: ma non lo sentì più.
«Mia regina», mormorò, per quanto fosse inutile. Lei stava su un pendio erboso e ascoltava la musica del suo trovatore? Khayman sentì il vento lieve e umido, vide il cielo grigio privo di stelle, come i mortali sentivano e vedevano quelle cose. Le luci di San Francisco, le colline scintillanti e le torri, erano i fari della notte urbana e all’improvviso apparivano terribili come la luna e la deriva delle galassie.
Chiuse gli occhi. La rivide come nella strada di Atene, mentre guardava bruciare la taverna con dentro i suoi figli; il manto lacero le pendeva dalle spalle, e il cappuccio lasciava scoperti i capelli intrecciati. Ah, sembrava la Regina del Cielo, così come un tempo aveva amato essere chiamata. I suoi occhi erano fulgidi e vuoti nella luce elettrica, la bocca tenera, innocente. La dolcezza del viso l’aveva resa infinitamente bella.
La visione lo trasportò molto più indietro attraverso i secoli, a un momento spaventoso quando lui, uomo mortale, era venuto con il cuore in gola ad ascoltare la sua volontà. La regina, ormai maledetta e consacrata alla luna, con il demone che dentro di lei reclamava il sangue… la regina non tollerava di avere vicino neppure le lampade. Era agitata e camminava avanti e indietro sul pavimento di argilla. Intorno a lei le pareti erano popolate di silenziose sentinelle dipinte.