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«Le gemelle», aveva detto, «le sorelle malefiche hanno pronunciato parole terribili e abominevoli.»

«Abbi pietà», l’aveva supplicata Khayman. «Non intendevano far del male. Ti giuro che hanno detto tutta la verità. Lasciale andare, lasciale di nuovo libere, mia sovrana. Non possono cambiare nulla.»

Ah, quanta compassione aveva provato per tutte… le gemelle e la sovrana.

«Ah, ma vedi, è necessario mettere alla prova le loro menzogne ributtanti», aveva detto la regina. «Devi venire più vicino, mio devoto maestro di palazzo, che mi hai sempre servito con tanta fedeltà…»

«Mia regina, mia amata regina, cosa vuoi da me?»

E con la stessa amabile espressione, lei aveva alzato le mani gelide per toccargli la gola, l’aveva stretto all’improvviso con una forza terrificante. Inorridito, Khayman aveva visto gli occhi diventare vitrei, la bocca aprirsi. Aveva visto le minuscole zanne quando lei s’era alzata in punta di piedi con la grazia bizzarra di un incubo. No. Non vorrai far questo a me! Mia regina, io sono Khayman!

Avrebbe dovuto perire ormai da molto tempo, com’era avvenuto in seguito a tanti bevitori di sangue. Sparito senza lasciar traccia, come le moltitudini senza nome dissolte nella terra di tutte le nazioni. Ma non era perito. E le gemelle erano ugualmente sopravvissute… o almeno era sopravvissuta una di loro.

Lei lo sapeva? Conosceva quei sogni terribili? Erano giunti a lei dalle menti di tutti gli altri che li avevano ricevuti? Oppure aveva vagato nella notte intorno al mondo, senza sogni e senza requie, impegnata in un unico compito, fin dalla sua resurrezione?

Vivono, mia regina, vivono in una se non in entrambe. Ricorda l’antica profezia! Se almeno lei avesse potuto udire la sua voce!

Aprì gli occhi. Era tornato al presente, alla cosa calcificata che era il suo corpo. E la musica lo saturava con un ritmo implacabile. Gli martellava negli orecchi. Le luci lampeggianti lo accecavano.

Voltò le spalle e appoggiò la mano al muro. Non era mai stato travolto in quel modo dal suono. Sentiva di perdere i sensi; ma la voce di Lestat lo richiamava.

Con gli occhi riparati dalle dita, Khayman guardò l’abbagliante riquadro bianco del palcoscenico. Guarda il diavolo che balla e canta con una gioia così evidente. Khayman si sentiva toccare il cuore, nonostante tutto.

La potente voce tenorile di Lestat non aveva bisogno dell’amplificazione elettronica. E persino gli immortali smarriti tra le loro prede cantavano con lui: la passione era contagiosa. Dovunque guardasse, Khayman li vedeva conquistati, mortali e immortali: i corpi si agitavano allo stesso ritmo delle figure sul palcoscenico. Le voci s’innalzavano, l’auditorium era scosso da un’ondata di movimento dopo l’altra.

La faccia gigantesca di Lestat si espandeva sul teleschermo mentre l’obiettivo si avvicinava. Gli occhi azzurri fissarono Khayman e ammiccarono.

«perché non mi uccidete? sapete cosa sono!»

La risata di Lestat s’innalzava più forte del grido vibrante delle chitarre.

«non riconoscete il male quando lo vedete?»

Ah, quella fede nel bene, nell’eroismo. Khayman la vedeva persino negli occhi dell’essere, un’ombra grigia di tragica necessità. Lestat rovesciò la testa e ruggì di nuovo; pestò i piedi e ululò, guardò le travi come se fossero il firmamento.

Khayman s’impose di muoversi. Doveva fuggire. Goffamente, si diresse alla porta come se fosse soffocato dal suono assordante. Persino il suo senso dell’equilibrio ne risentiva. La musica fragorosa lo seguì nel vano della scala; ma almeno era al riparo dalle luci lampeggianti. Si appoggiò al muro e cercò di schiarirsi la vista.

Odore di sangue. La fame di tutti i bevitori di sangue nella sala. E il palpito della musica nel legno e nell’intonaco.

Scese i gradini, senza sentire i propri passi sul cemento, e alla fine si lasciò cadere su un pianerottolo deserto. Si cinse le ginocchia con le braccia e chinò la testa.

La musica era come quella di un tempo, quando tutti i canti erano canti del corpo e i canti della mente non erano stati ancora inventati.

Khayman vide se stesso danzare; vide il re, il re mortale che aveva tanto amato, piroettare e spiccare balzi in aria; udì il rullo dei tamburi, il suono dei flauti. Il re gli metteva una birra nella mano. Il tavolo vacillava sotto il carico di selvaggina arrostita e di pagnotte. La regina stava sul trono d’oro, immacolata e serena, una donna mortale con un minuscolo cono di cera profumata nell’acconciatura, che si scioglieva lentamente nel calore e diffondeva la sua fragranza tra i capelli intrecciati.

Poi qualcuno gli aveva messo nella mano la bara, la bara minuscola che veniva fatta passare tra coloro che banchettavano. Il monito: Mangiate e bevete perché la morte ci attende tutti. La strinse nella mano: ora doveva passarla al re? All’improvviso sentì le labbra del re sul suo volto. «Danza, Khayman. Bevi. Domani marceremo al nord per sterminare i mangiatori di carne.»

Il re non guardò neppure la minuscola bara mentre la prendeva. La passò nella mano della regina e, senza guardarla, lei la diede a un altro.

Gli ultimi mangiatori di carne. Era parso tutto semplice, tutto giusto. Finché non aveva visto le gemelle inginocchiate davanti all’altare.

Il rullo dei tamburi soffocava la voce di Lestat. I mortali passavano accanto a Khayman, e notavano a malapena la sua presenza. Un bevitore di sangue lo sfiorò correndo senza badargli.

La voce di Lestat si levò di nuovo: cantava i Figli delle Tenebre, nascosti sotto il cimitero degli Innocenti, nella superstizione e nella paura.

Nella luce Siamo venuti, Miei fratelli e Sorelle!
uccideteci! Miei Fratelli e Sorelle!

Khayman si alzò, torpidamente. Barcollava ma continuò a muoversi, scese fino a quando arrivò nell’atrio dove il fragore era attutito, e si fermò a riposare di fronte alle porte interne, in una corrente di aria pura.

Stava ritrovando la calma, lentamente, quando si accorse che due mortali s’erano fermati vicino a lui e lo fissavano mentre stava appoggiato al muro con le mani in tasca e la testa reclinata.

All’improvviso si vide come loro lo vedevano. Percepì la loro apprensione, mista a un senso insopprimibile di vittoria. Erano uomini che conoscevano la sua specie, e avevano vissuto per un momento come quello e tuttavia lo temevano e non l’avevano mai desiderato veramente.

Alzò lo sguardo. Stavano a circa sei metri da lui, accanto al chiosco affollato, come se potesse nasconderli. Erano veri gentiluomini inglesi. Anziani, colti, con i volti profondamente segnati e l’abbigliamento corretto. Erano del tutto fuori posto, là, con i bei cappotti grigi, i colletti inamidati, le cravatte di seta. Sembravano esploratori venuti da un altro mondo, in mezzo ai giovani sgargianti che si muovevano irrequieti e sguazzavano nel fracasso barbarico e nel vociare spezzato.

E lo guardavano con una reticenza naturale, come se fossero troppo educati per aver paura. Erano anziani del Talamasca e cercavano Jessica.

Ci conoscete? Sì, naturalmente. Non è nulla di male. Non ha nessuna importanza.

Le sue parole silenziose fecero indietreggiare d’un passo quello che si chiamava David Talbot. Il respiro divenne più frettoloso, un velo di sudore gli spuntò sulla fronte e sul labbro superiore. Eppure, che compostezza elegante. David Talbot socchiuse gli occhi come se non volesse farsi abbagliare da ciò che vedeva; come se scorgesse le minuscole molecole che danzavano nella luce.