Come sembrava breve all’improvviso la durata di una vita umana: di fronte a quell’uomo fragile, per il quale l’istruzione e la raffinatezza hanno aggravato tutti i rischi. È così semplice alterare la trama del suo pensiero, delle sue attese. Khayman doveva dir loro dov’era Jesse? Doveva intromettersi? Tutto sommato non sarebbe cambiato nulla.
Intuiva che avevano paura di andarsene e di restare, e che li aveva bloccati, come se li avesse ipnotizzati. In un certo senso era il rispetto che li tratteneva li a guardarlo. Sembrava che dovesse offrire qualcosa, se non altro per porre fine a quell’attenzione sgradevole.
Non andate da lei. Sareste pazzi se lo faceste. Adesso lei ha altri come me che la proteggono. È meglio che ve ne andiate, lo lo farei, al vostro posto.
E adesso, che figura avrebbe fatto tutto ciò negli archivi del Talamasca? Una notte avrebbe potuto scoprirlo. In quali luoghi moderni avevano trasferito i vecchi documenti e i loro tesori?
Benjamin, il Diavolo. Ecco chi sono. Non mi riconoscete? Sorrise tra sé. Abbassò la testa e fissò il pavimento. Non aveva mai saputo di possedere quella vanità. E all’improvviso non gli interessava più ciò che significava per loro quel momento.
Pensò ai tempi andati, in Francia, quando aveva giocato con loro. «Permetteteci di parlarvi!» l’avevano implorato. Eruditi polverosi dagli occhi sbiaditi, perpetuamente cerchiati di rosso, e dai lisi indumenti di velluto, così diversi da quei due gentiluomini, per i quali l’occulto era una questione di scienza, non di filosofia. La disperazione di quel tempo lo atterrì all’improvviso; la disperazione del presente era altrettanto spaventosa.
Andate via.
Senza alzare la testa, vide che David Talbot aveva annuito. Educatamente, si ritirò con il suo compagno. Si guardarono alle spalle, poi si affrettarono ad avviarsi lungo la curva del vestibolo e nella sala del concerto.
Khayman era di nuovo solo, con il ritmo della musica che giungeva dalla porta; era solo e si chiedeva perché era venuto lì, e che cosa voleva; desiderava poter dimenticare ancora, desiderava essere in un luogo bellissimo pieno di brezze tiepide e di mortali che non sapevano cos’era, e palpitanti lampadine elettriche sotto le nubi sbiadite, e i piatti, interminabili marciapiedi della città da percorrere fino al mattino.
Jesse
«Lasciami in pace, figlio di puttana!» Jesse sferrò un calcio all’uomo che le stava vicino, l’uomo che le aveva passato il braccio intorno alla vita e l’aveva scostata dal palcoscenico. «Bastardo!» Piegato in due per il dolore al piede, non era in grado di resistere al suo spintone improvviso. Cadde.
Per cinque volte l’avevano trascinata via dal palcoscenico. Si chinò e si fece largo tra il gruppetto che aveva preso il suo posto, scivolando contro gli indumenti di pelle nera come se fosse un pesce, e si afferrò al bordo di legno grezzo. Con una mano strinse la robusta stoffa sintetica che lo decorava e l’attorse come una fune.
Nelle luci lampeggianti, vide il vampiro Lestat spiccare un gran balzo in aria e ricadere senza un suono, mentre la voce saliva di nuovo senza bisogno del microfono per riempire l’auditorium; i suoi chitarristi danzavano intorno a lui come folletti.
Il sangue gli scorreva in rivoletti minuscoli sul volto bianco, come dalla corona di spine di Cristo, i lunghi capelli biondi ondeggiavano mentre girava su se stesso, si strappava la camicia sul petto, faceva cadere la cravatta nera. Gli occhi celesti e cristallini erano vitrei e iniettati di sangue mentre urlava i versi delle canzoni.
Jesse sentì che il suo cuore riprendeva a battere mentre guardava il movimento dei fianchi, i neri pantaloni attillati che rivelavano? la muscolatura possente delle cosce. Lestat spiccò un altro balzo, sollevandosi senza sforzo come se volesse ascendere fino al soffitto della sala.
Sì, lo vedi, e non c’è possibilità d’errore! Non ci sono altre spiegazioni!
Jesse si asciugò il naso. Aveva ricominciato a piangere. Ma toccalo, accidenti, devi toccarlo! Stordita, lo guardò finire la canzone e battere il piede alle ultime note risonanti, mentre i musicisti danzavano avanti e indietro e scrollavano i capelli, e le loro voci si smarrivano nella sua, mentre cercavano di reggere il ritmo.
Dio, come gli piaceva! Non fingeva affatto. Era immerso nell’adorazione, e la beveva come fosse sangue.
Poi, mentre si lanciava nell’inizio frenetico di un’altra canzone, si strappò il mantello di velluto nero, lo roteò nell’aria e lo fece volare in mezzo al pubblico. La folla ululò e ondeggiò. Jesse sentì un ginocchio contro la schiena, uno stivale che le scalfiva il calcagno: ma quella era la sua occasione mentre le guardie balzavano dal palcoscenico per fermare la mischia.
Premette entrambe le mani sul bordo di legno, spiccò un salto, si issò e si alzò in piedi. Corse verso la figura danzante che adesso, all’improvviso, la guardava.
«Sì, tu! Tu!» gridò Jesse. Con la coda dell’occhio scorse la guardia che si avvicinava. Si avventò con tutto il suo peso contro il vampiro Lestat. Chiuse gli occhi e gli cinse la vita con le braccia. Sentì il freddo choc del torace serico contro il viso e sentì il sangue sulle labbra!
«Oh, Dio, è reale!» mormorò. Il cuore stava per scoppiarle, ma resistette. Sì, la pelle di Mael, come quella, e la pelle di Maharet, come quella, e come quella di tutti gli altri. Sì, così! Reale, non umano. Sempre. Ed era fra le sue braccia: ora sapeva ed era troppo tardi perché potessero fermarla!
Alzò la mano sinistra, gli afferrò una ciocca di capelli; e quando aprì gli occhi vide che le sorrideva, vide la lucida pelle bianca senza pori, le zanne minuscole.
«Diavolo!» mormorò. Rideva come una pazza, piangeva e rideva.
«Ti amo, Jessica», mormorò lui, e le sorrise come se la provocasse, mentre i capelli biondi gli spiovevano sugli occhi.
Sbalordita, Jesse sentì il braccio che la cingeva. Poi Lestat la sollevò sul fianco e la fece girare in cerchio. I musicisti urlanti divennero una visione confusa; le luci erano strisce violente bianche e rosse. Jesse gemeva, ma continuava a guardarlo, a guardargli gli occhi, sì, era reale. Si aggrappò disperatamente perché sembrava che intendesse scagliarla nell’aria, sopra le teste degli spettatori. E poi, quando la posò e chinò la testa, con i capelli che gli spiovevano sulla guancia, Jesse sentì la bocca chiudersi sulla sua.
La musica martellante si affievolì com’e se fosse sprofondata nel mare. Lo sentiva respirare in lei, sospirare contro di lei, sentiva le dita lisce che le toccavano il collo. Gli premeva il seno contro il battito del cuore; e una voce le parlava, una voce pura, come un’altra voce aveva fatto molto tempo prima, una voce che la conosceva e comprendeva i suoi interrogativi e sapeva come dovevano trovare una risposta.
Il male, Jesse. Come tu hai sempre saputo.
Qualcuno la tirava indietro. Mani umane. La stavano separando da lui. Urlò.
Lestat la guardò, frastornato. Stava frugando in profondità nei propri sogni in cerca di qualcosa che ricordava solo vagamente. Il banchetto funebre; le gemelle dai capelli rossi inginocchiate ai lati dell’altare. Ma fu una frazione di secondo, non di più; poi svanì. Era sconcertato. Il sorriso balenò di nuovo, impersonale come una delle luci che l’accecavano di continuo. «Bella Jesse!» le disse, e alzò la mano come in un gesto d’addio. La stavano trascinando indietro, lontano da lui, fuori dal palcoscenico.
Jesse rideva mentre la posavano.
La camicetta bianca era macchiata di sangue. Le sue mani erano coperte di pallide striature di sangue salato. Sapeva di conoscerne il sapore. Rovesciò la testa all’indietro e rise; ed era così strano non poter udire, ma soltanto percepire il fremito che la scuoteva, e la certezza che stava piangendo e ridendo nello stesso tempo. La guardia le disse qualcosa, brusco e minaccioso. Ma non aveva più importanza.