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La folla l’aveva ripresa. L’inghiottì turbinandole intorno e cacciandola dal centro. Una scarpa pesante le calpestò il piede destro. Inciampò, si voltò e si lasciò spingere verso la porta.

Non aveva più importanza. Sapeva. Sapeva tutto. Le girava la testa. Non sarebbe rimasta ritta se non fosse stato per le spalle che la urtavano. E non aveva mai provato un abbandono tanto meraviglioso. Non s’era mai sentita così libera.

La folle musica cacofonica continuava. Le facce apparivano e sparivano in un’onda di luce colorata. Sentiva l’odore della marijuana, della birra. Sete. Sì, qualcosa di fresco da bere. Qualcosa di fresco. Tanta sete. Alzò di nuovo la mano e leccò il sangue salato. Tremò e vibrò, come le accadeva spesso sulla soglia del sonno. Un tremore delizioso che preannunciava i sogni. Leccò di nuovo il sangue e chiuse gli occhi.

All’improvviso sentì d’essere in un luogo aperto. Nessuno la spingeva. Alzò la testa e vide che era arrivata alla porta, alla rampa che conduceva nell’atrio sottostante. La folla era dietro di lei, sopra di lei. Poteva riposare. Andava tutto bene.

Passò la mano sul muro untuoso, calpestò la distesa di bicchieri di carta, una parrucca caduta con i riccioli gialli. Reclinò la testa all’indietro e riposò, con la luce cruda dell’atrio che le batteva sugli occhi. Aveva sulla punta della lingua il sapore del sangue. Le sembrava d’essere sul punto di piangere di nuovo, ed era bellissimo. Per il momento non c’erano passato e presente, non c’erano necessità, e tutto il mondo era cambiato, dalle cose più semplici alle più grandi. Fluttuava al centro del più seducente stato di pace e di accettazione che avesse mai conosciuto. Oh, se avesse potuto dirlo a David, se avesse potuto spartire con altri quel grande, travolgente segreto…

Qualcosa la toccò. Qualcosa di ostile. Si voltò, riluttante, e scorse una figura massiccia al suo fianco. Che cos’era? Si sforzò di vederla chiaramente.

Arti ossuti, capelli neri pettinati all’indietro, tinta rossa sulla bocca contorta, ma la pelle, la stessa pelle. E le zanne. Non era umano. Uno di loro!

Talamasca?

Le giunse come un sibilo. La colpì al petto. Alzò istintivamente le braccia, le incrociò sul seno stringendosi le spalle.

Talamasca?

Era silenzioso, e tuttavia assordante, carico di rabbia.

Jesse cercò di indietreggiare ma la mano l’afferrò, le dita le affondarono nel collo. Cercò di urlare mentre si sentiva sollevare di peso.

E poi volò attraverso l’atrio e urlò e urlò fino a che battè la testa contro il muro.

Tenebra. Vide la sofferenza, un lampo giallo e poi bianco che dilagava nella spina dorsale e si diffondeva negli arti in un milione di ramificazioni. Il suo corpo s’intorpidì. Finì sul pavimento con un altro colpo doloroso al volto e alle palme delle mani, poi rotolò sul dorso.

Non vedeva nulla. Forse aveva gli occhi chiusi; ma la cosa strana era che, se erano chiusi, non riusciva ad aprirli. Sentiva le voci, la gente che gridava. Risuonò un fischio… o forse era il clangore d’una campana. C’era un rumore tonante, ma era la folla che applaudiva in sala. Intorno a lei, la gente discuteva.

Qualcuno, molto vicino, disse: «Non toccatela. Ha il collo spezzato!»

Spezzato? Si può vivere con il collo rotto?

Qualcuno le appoggiò la mano sulla fronte. Ma la sentiva solo come un formicolio, come se avesse freddo e camminasse nella neve e ogni vera sensazione l’avesse abbandonata. Non ci vedo.

«Ascolta, tesoro.» La voce di un giovane, una di quelle voci che si potevano sentire a Boston o a New Orleans o a New York. Un vigile del fuoco, un poliziotto, un soccorritore. «Pensiamo a tutto noi, tesoro. Sta arrivando l’ambulanza. Resta immobile, tesoro, non preoccuparti.»

Qualcuno le toccava il seno. No, le prendeva i documenti dalla tasca. Jessica Miriam Reeves. Sì.

Stava a fianco di Maharet e guardavano la mappa gigantesca con tante luci minuscole. E comprese. Jesse nata da Miriam, che era nata da Alice, che era nata da Carlotta, che era nata da Jane Marie, che era nata da Anne, che era nata da Janet Belle, che era nata da Elizabeth, che era nata da Louise, che era nata da Frances, che era nata da Frieda, che era nata da…

«Scusate, per favore, siamo suoi amici…»

David.

La sollevarono. Jesse sentì la propria voce urlare, ma non ne aveva avuto intenzione. Vedeva di nuovo la mappa e il grande albero genealogico pieno di nomi. Frieda nata da Dagmar, nata da…

«Piano, piano! Accidenti!»

L’aria cambiò; diventò fresca e umida. Jesse sentì la brezza sul volto; poi le sensazioni abbandonarono completamente le mani e i piedi. Sentiva le palpebre, ma non riusciva a muoverle.

Maharet le parlava. «… dalla Palestina in Mesopotamia, e poi lentamente attraverso l’Asia Minore e in Russia e quindi nell’Europa orientale. Capisci?»

Era un carro funebre o un’ambulanza, e sembrava troppo silenzioso per essere un’ambulanza: la sirena, per quanto incessante, era troppo lontana. Cos’era accaduto a David? Non avrebbe dovuto lasciarla andare a meno che fosse morta. Ma com’era possibile che David fosse lì? Le aveva detto che nulla al momento avrebbe potuto indurlo a venire. David non c’era. Doveva averlo immaginato. E la cosa strana era che non c’era neppure Miriam. «Santa Maria, madre di Dio… adesso e nell’ora della nostra morte…»

Ascoltò. Correvano attraverso la città. Sentì che svoltavano all’angolo; ma dov’era il suo corpo? Non lo sentiva. Il collo rotto. Sicuramente voleva dire che era morta.

Cos’era la luce che scorgeva attraverso la giungla? Un fiume? Sembrava troppo ampio per essere un fiume. Come attraversarlo? Ma non era Jesse che camminava nella giungla e lungo la riva. Era un’altra. Tuttavia vedeva le mani protese davanti a lei; per scostare le liane e le fronde afflosciate, come se fossero le sue mani. Quando abbassava lo sguardo vedeva i capelli rossi, le lunghe ciocche rosse e ricciute, piene di frammenti di foglie e di terriccio…

«Mi senti, tesoro? Avremo cura di te. I tuoi amici sono nella macchina che ci segue. Non preoccuparti.»

L’uomo diceva altre cose. Ma lei aveva perso il filo. Non poteva udirlo; sentiva soltanto il tono premuroso. Perché era così addolorato per lei? Non la conosceva neppure. Capiva che non era suo, il sangue sulla camicetta? Sulle mani? Colpevole. Lestat aveva cercato di dirle che era il male, ma per lei era stato così privo d’importanza, così impossibile da porre in relazione con il tutto. Non era che non si curasse del bene e del giusto; ma per il momento questo era più grande. Sapere. E lui aveva parlato come se fosse destinata a fare qualcosa, mentre non aveva avuto intenzione di far nulla.

Perciò, probabilmente, le andava bene morire. Se almeno Maharet avesse compreso. E pensare che David era con lei, sulla macchina che li seguiva. David conosceva in parte la storia, comunque, e dovevano avere un fascicolo intestato a lei: Reeves, Jessica. E sarebbe stato un altro documento. «Una dei nostri devoti membri, indubbiamente come risultato di… pericolosissimo… in nessuna circostanza deve tentare un avvistamento…»

La muovevano di nuovo. Di nuovo l’aria fresca, e odore di benzina e d’etere. Sapeva che oltre lo stordimento e la tenebra c’era una sofferenza terribile, ed era meglio restare immobile e non cercare di andare al di là. Era meglio lasciare che la portassero, che spingessero la barella a ruote lungo il corridoio.

Qualcuno piangeva. Una bambina.

«Mi senti, Jessica? Voglio farti sapere che sei all’ospedale e che stiamo facendo per te tutto il possibile. I tuoi amici sono fuori, David Talbot e Aaron Lightner. Abbiamo detto loro che devi restare immobile…»