Questo è il mio Corpo. Questo è il mio Sangue. Eppure l’odio ribolliva tra i fratelli e le sorelle vampiri. Mentre il concerto stava per concludersi, Daniel lo sentì nettamente… un odore che ascendeva dalla folla, un sibilo che si espandeva sotto il frastuono della musica.
Uccidete il dio. Fatelo a pezzi. E che gli adoratori mortali facciano ciò che hanno sempre fatto, e piangano chi era destinato a morire. «Andate, la messa è finita.»
Le luci in sala si accesero. I fan assalirono il palcoscenico, strapparono il sipario di sargia nera per inseguire i musicisti in fuga.
Armand afferrò Daniel per il braccio. «Usciamo dalla porta laterale», disse. «La nostra unica speranza è raggiungerlo al più presto possibile.»
Khayman
Fu come aveva previsto. La regina colpì i primi di coloro che lo attaccavano. Lestat era uscito dalla porta sul retro con Louis al fianco, e stava correndo per raggiungere la Porsche nera quando gli assassini si scatenarono. Sembrava che un cerchio rudimentale cercasse di chiudersi intorno a lui; ma il primo, con la falce brandita, esplose in fiamme. La folla cedette al panico, i ragazzi terrorizzati fuggirono in tutte le direzioni. Un altro aggressore immortale fu avvolto dal fuoco. Poi un altro.
Khayman indietreggiò e strisciò rasente al muro mentre i goffi umani gli correvano accanto. Vide una bevitrice di sangue, alta ed elegante, che fendeva inosservata la folla, si metteva al volante della Porsche e chiamava Louis e Lestat perché la raggiungessero. Era Gabrielle, la madre del demonio. E naturalmente il fuoco letale non la toccava. Non c’era una particella di paura nei suoi freddi occhi azzurri mentre preparava la macchina con gesti rapidi e decisi.
Lestat, intanto, girava su se stesso in preda alla rabbia. Esasperato, privato della battaglia, alla fine salì in macchina solo perché gli altri lo costrinsero.
E mentre la Porsche si avventava fra i giovani in fuga, dovunque i bevitori di sangue bruciavano. In un orrido coro silenzioso si levarono le loro grida, le loro maledizioni convulse, i loro ultimi interrogativi.
Khayman si coprì la faccia. La Porsche aveva percorso quasi metà della distanza che la separava dal cancello prima che la folla la costringesse a fermarsi. Le sirene ululavano, le voci ruggivano comandi; molti giovani erano caduti con gli arti fratturati. I mortali gridavano di dolore e di angoscia.
Raggiungi Armand, pensò Khayman. Ma a che serviva? Li vedeva ardere, dovunque guardasse, in grandi pennacchi contorti di fiamma arancio e azzurra che si mutava improvvisamente e diventava bianca quando abbandonava gli indumenti carbonizzati che cadevano a terra. Come poteva mettersi tra il fuoco e Armand? Come poteva salvare il giovane Daniel?
Alzò gli occhi verso le colline lontane e vide una figura minuscola che splendeva contro il cielo scuro, ignorata da tutti coloro che urlavano e fuggivano e invocavano aiuto intorno a lui.
All’improvviso sentì il calore; sentì che lo toccava com’era avvenuto ad Atene. Lo sentì danzare intorno alla sua faccia, sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Guardò con fermezza la minuscola fonte lontana. E poi, per qualche ragione che forse non avrebbe mai potuto comprendere, decise di non respingere il fuoco e di scoprire piuttosto che cosa poteva fargli. Ogni fibra del suo essere gli ordinava: Rimandalo! Tuttavia rimase immobile, senza pensare, mentre il sudore gli grondava addosso. Il fuoco lo circondò, lo abbracciò e infine si allontanò lasciandolo solo, raggelato e ferito più di quanto avesse mai potuto immaginare. Mormorò sommessamente una preghiera: Che le gemelle ti distruggano.
Daniel
Il fuoco! Daniel sentì il lezzo untuoso nel momento in cui vide le fiamme erompere qua e là in mezzo alla moltitudine. Che protezione offriva la folla, ormai? I fuochi erano come minuscole esplosioni, e gruppi di adolescenti frenetici cercavano barcollando di allontanarsi e correvano in cerchio, insensatamente, scontrandosi tra loro.
Il suono. Daniel lo udì di nuovo. Passava sopra di loro. Armand lo tirò indietro, contro l’edificio. Era inutile. Non potevano raggiungere Lestat. E non avevano un riparo. Armand si trascinò dietro Daniel e rientrò nell’atrio. Due vampiri terrorizzati passarono correndo oltre l’entrata, poi esplosero in minuscole conflagrazioni.
Inorridito, Daniel vide gli scheletri risplendere mentre si fondevano nel fulgore giallo. Dietro di loro, nell’auditorium deserto, una figura in fuga fu avvolta dalle stesse fiamme orribili. Si contorse e stramazzò sul cemento, e il fumo salì dagli indumenti vuoti. Sul pavimento si formò una pozzanghera di grasso che si asciugò prima che Daniel distaccasse lo sguardo.
Corsero di nuovo fuori, fra i mortali in fuga, e questa volta si diressero verso i cancelli lontani, attraverso metri e metri di asfalto.
All’improvviso si mossero così rapidi che i piedi di Daniel si staccarono dal suolo. Il mondo non era altro che una chiazza di colore. Anche le grida pietose dei fan spaventati erano protratte, smorzate. Si fermarono ai cancelli proprio mentre la Porsche nera di Lestat sfrecciava fuori dal parcheggio, passava accanto a loro e si avventava sul viale. Dopo pochi secondi era scomparsa, come un proiettile sparato a sud, verso la superstrada.
Armand non cercò di seguirla. Sembrava che neppure la vedesse. Stava accanto al cancello e guardava indietro, al di sopra della folla, al di sopra del tetto curvo dell’auditorium, verso l’orizzonte lontano, il bizzarro suono telepatico era diventato assordante: inghiottiva ogni altro suono al mondo, inghiottiva ogni sensazione.
Daniel non seppe trattenersi dal portare le mani agli orecchi, non seppe impedire che le sue ginocchia si piegassero. Sentì Armand avvicinarsi. Ma non vedeva più nulla. Sapeva che se doveva accadere, sarebbe accaduto ora; tuttavia non aveva ancora paura, non poteva credere alla propria morte. Era paralizzato dallo stupore e dalla confusione.
Il suono si dileguò gradualmente. Stordito, si accorse che la vista si schiariva; vide avvicinarsi la grande sagoma rossa di un pesante automezzo, mentre i vigili del fuoco gli gridavano di scostarsi. L’ululato delle sirene giungeva come da un altro mondo, ed era un ago invisibile che gli trafìggeva le tempie.
Armand lo stava scostando premurosamente. La gente spaventata passava accanto a loro come spinta dal vento. Si sentì cadere: ma Armand lo sorresse. Uscirono dal recinto, nella ressa calda dei mortali, guizzando fra coloro che, attraverso la rete metallica, spiavano quel caos.
Fuggivano ancora a centinaia. Le sirene, aspre e stonate, sommergevano le loro grida. Uno dopo l’altro i camion dei vigili del fuoco arrivavano rombando e avanzavano in mezzo ai mortali che si disperdevano. Ma erano rumori esili e distanti, soffocati dal suono sovrannaturale che via via recedeva. Armand si aggrappò alla rete, a occhi chiusi, la fronte contro il metallo. La recinzione fremeva, come se, al pari loro, udisse quanto avveniva.
Il suono svanì.
Scese un silenzio gelido. Il silenzio dello choc, del vuoto. Sebbene il pandemonio continuasse, non li toccava.
Erano soli. L’immagine dei mortali lentamente, in lontananza, si sgranava. E l’aria portava di nuovo le grida sovrannaturali, come carta d’argento in fiamme. Altri morti, ma dove?
Attraversò il viale a fianco di Armand. Senza fretta. S’incamminarono in una buia strada laterale, fra case di stucco sbiadite, modesti negozi e insegne al neon traballanti, calpestando i marciapiedi screpolati.
Continuarono a camminare. Intorno a loro la notte divenne fredda e silenziosa. Il suono delle sirene era remoto, quasi luttuoso.
Quando raggiunsero un grande boulevard sgargiante apparve un filobus massiccio, inondato di luce verdastra. Sembrava uno spettro che procedeva verso di loro, nel vuoto e nel silenzio. Pochi passeggeri mortali guardavano desolati dai finestrini sporchi. L’autista guidava come un sonnambulo.