Armand alzò stancamente gli occhi, come se volesse semplicemente guardarlo passare. E con grande stupore di Daniel, il filobus si fermò davanti a loro.
Salirono insieme, ignorando la cassetta per il denaro, e si lasciarono cadere seduti, fianco a fianco, sulla lunga panca. L’autista non distolse lo sguardo dal parabrezza buio. Armand si appoggiò al finestrino e fissò il pavimento di gomma nera. Era spettinato e aveva la guancia macchiata di fuliggine. Il labbro inferiore sporgeva leggermente. Assorto nei suoi pensieri, sembrava del tutto dimentico di sé.
Daniel guardò i mortali: la donna dalla faccia grinzosa e dalle labbra sottili che lo fissava irosamente; l’ubriaco senza collo che russava con il mento appoggiato al petto, e l’adolescente con i capelli lisci e le piaghe agli angoli della bocca, che teneva in grembo un bimbetto grasso con la pelle simile a bubblegum. C’era qualcosa di orrendamente anormale in ognuno di loro. E c’era il morto sul sedile in fondo, con gli occhi socchiusi e la saliva semiasciugata sul mento. Nessuno si accorgeva che era morto? L’urina puzzava, asciugandosi sotto di lui.
Anche le mani di Daniel parevano morte, livide. Il guidatore sembrava un cadavere con un unico braccio vivo mentre girava il volante. Era un’allucinazione? O era il filobus per l’inferno?
No, era soltanto un filobus come un milione d’altri che aveva preso in vita, un veicolo sul quale i reietti percorrevano le vie della città nelle ore notturne. Sorrise, scioccamente. Stava per mettersi a ridere al pensiero del morto là dietro e della gente che viaggiava come se niente fosse, e della luce che dava a tutti quell’aspetto incredibile. Ma poi ritornò un senso di paura.
Il silenzio lo snervava. Il lento ondeggiare nel filobus lo snervava, e lo snervava la parata di case luride al di là dei finestrini; e la vista della faccia apatica e dello sguardo vacuo di Armand era insopportabile.
«Lei tornerà a cercarci?» chiese. Non poteva più resistere.
«Sapeva che eravamo là», disse Armand, con gli occhi opachi e la voce bassa. «È passata oltre.»
Khayman
S’era ritirato sull’alto pendio erboso, oltre il quale stava il freddo Pacifico.
Il tutto si fondeva in un unico panorama: la morte in lontananza, perduta tra le luci, i lamenti esili delle anime sovrannaturali intessuti con le voci più brunite e più ricche della città umana.
I diavoli avevano inseguito Lestat, avevano spinto fuoristrada la Porsche, ma Lestat era uscito illeso dal rottame, smanioso di battersi: ma il fuoco aveva colpito ancora per disperdere o bruciare quelli che lo circondavano.
Rimasto finalmente solo con Louis e Gabrielle, aveva acconsentito a ritirarsi senza sapere con certezza chi o che cosa l’aveva protetto.
E all’insaputa dei tre, la regina continuava ad annientare i loro nemici.
Il suo potere sorvolava i tetti, annientava coloro che erano fuggiti, coloro che avevano cercato di nascondersi, coloro che, in preda alla confusione e all’angoscia, avevano indugiato accanto ai compagni caduti.
La notte puzzava dei loro roghi, i roghi dei fantasmi gementi che non lasciavano nulla sull’asfalto vuoto se non gli indumenti rovinati. Laggiù, sotto le luci dei parcheggi abbandonati, i tutori della legge cercavano inutilmente i cadaveri, i vigili del fuoco cercavano invano qualcuno da aiutare. I giovani mortali piangevano disperati.
Si curavano quelli che avevano piccole ferite; coloro che in preda a choc davano in escandescenza venivano narcotizzati e portati via. Erano così efficienti, le organizzazioni di quell’epoca d’abbondanza. Getti d’acqua giganteschi ripulivano i parcheggi, spazzavano via gli stracci carbonizzati degli esseri distrutti dal fuoco.
E le creature minuscole, laggiù, discutevano e giuravano di aver assistito alle immolazioni. Ma non restava alcuna prova. La regina aveva annientato completamente le sue vittime.
E adesso si allontanava dall’auditorium per cercare nei recessi più profondi della città. La sua forza penetrava fino agli angoli più nascosti, entrava dalle finestre e dalle porte. Si scorgeva un piccolo guizzo di fiamme, come d’uno zolfanello acceso. Poi più nulla.
La notte divenne più silenziosa. Le taverne e i negozi chiudevano e le luci si spegnevano nell’addensarsi dell’oscurità. Il traffico diradava sulle superstrade.
La regina aveva raggiunto, nelle vie di North Beach, colui che aveva desiderato solo vederla in viso; l’aveva bruciato lentamente mentre si trascinava sul marciapiedi. Le ossa erano diventate cenere, il cervello una massa di braci ardenti. Colpì un altro su un alto tetto piatto, e l’essere precipitò come una stella cadente sulla città. Quando tutto finì, i suoi indumenti vuoti presero il volo come carta.
E Lestat si dirigeva a sud, verso il suo rifugio di Carmel Valley. Giubilante, ebbro d’amore per Louis e Gabrielle, parlava dei vecchi tempi e dei nuovi sogni, completamente dimentico del massacro finale.
«Maharet, dove sei?» sussurrò Khayman. La notte non rispose. Se Mael era vicino, se Mael aveva udito il richiamo, non ne diede segno. Povero, disperato Mael che era corso all’aperto dopo l’aggressione a Jessica. Mael, che forse era stato ucciso come gli altri. Mael, che era rimasto immobile a guardare mentre l’ambulanza portava Jessica lontano da lui.
Khayman non riusciva a trovarlo.
Setacciò le colline costellate di luci, le valli profonde dove il palpito delle anime era come un sussurro tonante. «Perché ho assistito a queste cose?» si chiese. «Perché i sogni mi hanno condotto qui?»
Continuò ad ascoltare il mondo dei mortali.
Le radio parlavano di culti diabolici, disordini, incendi, allucinazioni collettive. Accusavano i vandalismi e i giovani impazziti. Ma era una città grande, nonostante le dimensioni geografiche. La mente razionale aveva già incapsulato l’esperienza e l’aveva accantonata. Migliaia di abitanti non se ne accorgevano neppure. Altri correggevano meticolosamente nel ricordo le cose impossibili che avevano visto. Il vampiro Lestat era una rock star umana e niente di più, il suo concerto era stato la scena di un’isteria prevedibile anche se incontrollabile.
Forse faceva parte del disegno della regina, far naufragare in quel modo i sogni di Lestat: bruciare i suoi nemici e cancellarli dalla faccia della terra prima che la fragile trama delle convinzioni umane potesse venire danneggiata irreparabilmente. Se era così, alla fine avrebbe punito anche quella creatura?
A Khayman non giungevano risposte.
Il suo sguardo si mosse sul territorio addormentato. La nebbia era salita dall’oceano e si era posata in strati rosei sulle cime delle colline. La scena aveva una dolcezza fiabesca, nella prima ora dopo mezzanotte.
Chiamò a raccolta tutto il suo potere e cercò di abbandonare i confini del corpo per tentare di vedere quelli che la Madre poteva aver risparmiato e per avvicinarsi a loro.
«Armand», disse a voce alta. Poi le luci della città si affievolirono. Sentì il tepore e l’illuminazione di un altro luogo; e Armand gli stava davanti.
Armand e la sua creatura, Daniel, erano tornati sani e salvi alla casa dove avrebbero dormito indisturbati sotto il pavimento della cantina. Stordito, il giovane si muoveva a passo di danza nelle grandi stanze lussuose, con la mente colma delle canzoni e dei ritmi di Lestat. Armand guardava la notte; il suo viso di adolescente era impassibile come prima. Vedeva Khayman! Lo vedeva immobile sulla collina lontana, e tuttavia lo sentiva abbastanza vicino per toccarlo. Si studiarono silenziosamente, invisibilmente.
A Khayman la solitudine sembrava insopportabile; ma gli occhi di Armand non rivelavano nessuna emozione, nessun benvenuto, nessun senso di fiducia.