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Si voltò, sorrise. La luce pallida del cielo investiva gli angoli incantevoli del suo volto, gli zigomi alti, la curva dolce del mento. Appariva viva, assolutamente viva.

Poi svanì.

«Akasha!»

«Vieni a me», disse.

Ma dov’era? Poi la vidi, lontana, in fondo alla sala. Una figura minuscola all’entrata della torre. Stentavo a distinguere i lineamenti del suo volto, tuttavia scorgevo dietro di lei il rettangolo nero della porta aperta.

Mi avviai per raggiungerla.

«No», mi disse. «È tempo che usi la forza che ti ho donato. Vieni!»

Non mi mossi. La mia mente era limpida, la mia vista era limpida. E sapevo cosa intendeva. Ma avevo paura. Ero sempre stato quello che scattava e balzava ed eseguiva trucchi. La velocità sovrannaturale che sconcertava i mortali, per me non era una novità. Ma lei mi chiedeva di fare qualcosa di nuovo. Dovevo lasciare il punto in cui stavo e localizzarmi all’improvviso accanto a lei, con una velocità che neppure io avrei potuto seguire. Era necessaria una resa, per tentare una cosa simile.

«Sì, una resa», disse lei gentilmente. «Vieni.»

Per un momento di tensione mi limitai a guardarla. La sua mano bianca splendeva sullo stipite della porta sfondata. Poi presi la decisione di essere al suo fianco. Fu come se mi toccasse un uragano, pieno di fragore e di forza cieca. E fui là! Mi sentii scuotere da un brivido. Il volto mi doleva un poco, ma che importanza aveva? La guardai negli occhi e sorrisi.

Era bella, così bella. La dea dai lunghi capelli intrecciati. La presi impulsivamente fra le braccia e la baciai. Baciai le labbra fredde.

Poi il senso del sacrilegio mi colpì. Era come la volta in cui l’avevo baciata nel sacrario. Volevo dire qualcosa per scusarmi, ma fissavo di nuovo la sua gola, assetato di sangue. Era un tormento pensare che potevo berlo e che tuttavia lei era ciò che era; avrebbe potuto annientarmi in un momento, solo desiderando di vedermi morire. Era ciò che aveva fatto agli altri. Il pericolo mi solleticava oscuramente. Le strinsi le dita intorno alle braccia, sentii la carne cedere leggermente. La baciai ancora, ancora. E sentii il sapore del sangue.

Si ritrasse e mi posò l’indice sulle labbra. Poi mi prese per mano e mi condusse oltre la soglia della torre. La luce delle stelle scendeva dal tetto sfondato, molto più in alto, attraverso uno squarcio nel pavimento della stanza.

«Vedi?» mi disse. «La stanza lassù c’è ancora. La scala non c’è più. E la stanza è irraggiungibile se non per te e per me, mio principe.»

Incominciò a salire lentamente. Salì senza staccare gli occhi da me, mentre la seta della veste ondeggiava lievemente. Restai a guardare sbalordito mentre ascendeva e ascendeva, con il mantello agitato dalla brezza. Passò attraverso l’apertura e si fermò.

Decine di metri! Non potevo farlo…

«Vieni a me, mio principe», disse. La voce sommessa echeggiava nel vuoto. «Fai come hai già fatto. Devi farlo rapidamente e, come dicono i mortali, non guardare giù.» Un sussurro ridente.

Forse sarei riuscito a salire per un quinto della distanza… un salto di un edificio a quattro piani, che per me era abbastanza facile, ma oltre quel limite… Vertigine. Impossibile. Disorientamento. Come eravamo giunti fin lì? Tutto turbinava. La vedevo, ma era come un sogno, e le voci mi disturbavano. Non volevo perdere quel momento. Volevo restare connesso al tempo in una serie di momenti collegati, e comprendere secondo i miei criteri.

«Lestat!» mormorò. «Vieni!» Era così tenero, il piccolo gesto che mi invitava ad affrettarmi.

Feci ciò che avevo già fatto: la guardai e decisi che dovevo essere istantaneamente al suo fianco.

Di nuovo l’uragano, l’aria che mi feriva. Alzai le braccia e lottai contro la resistenza. Mi parve di vedere lo squarcio nelle assi spezzate quando le attraversai. E poi mi ritrovai lassù, scosso, timoroso di precipitare.

Sembrava che stessi ridendo; ma forse stavo impazzendo un poco. Piangevo. «Ma come?» chiesi. «Devo sapere come ho fatto.»

«Conosci già la risposta», disse lei. «La cosa intangibile che ti anima ora ha assai più forza di prima. Ti ha mosso come ha sempre fatto. Che tu compia un passo o spicchi il volo, è semplicemente una questione di gradi.»

«Voglio ritentare», dissi.

Rise, sommessamente ma spontaneamente. «Guarda questa stanza», disse. «La ricordi?»

Annuii. «Quand’ero giovane venivo sempre quassù», dissi. Mi allontanai da lei. Vedevo i mucchi di mobili rovinati, le panche e gli sgabelli che un tempo avevano riempito il nostro castello, oggetti medievali così rozzi e robusti da risultare quasi indistruttibili, come gli alberi che cadono nella foresta e restano là per secoli, i ponti sui ruscelli, i tronchi coperti di muschio. Quei mobili non erano marciti. Rimanevano persino i vecchi scrigni e le armature. Oh, sì, le vecchie armature, spettri di glorie passate. E nella polvere vedevo fioche macchie di colore. Erano arazzi: ma quelli erano completamente distrutti.

Durante la rivoluzione, dovevano aver portato lì quella roba per metterla al sicuro. Poi la scala era crollata.

Andai a una delle feritoie e guardai il territorio circostante. Molto più in basso, sul fianco della montagna, c’erano le luci elettriche di una piccola città: erano sparse, ma c’erano. Una macchina scendeva la strada stretta. Ah, il mondo moderno così vicino e tuttavia così lontano. Il castello era il fantasma di se stesso.

«Perché mi hai portato qui?» chiesi. «È doloroso vedere tutto ciò, doloroso come tutto il resto.»

«Guarda le armature», disse Akasha. «Guarda cosa sta ai loro piedi. Ricordi le armi che prendesti quando andasti a uccidere i lupi?»

«Sì, le ricordo.»

«Guardale ancora. Io ti darò armi nuove, infinitamente più potenti, e con quelle ora ucciderai per me.»

«Uccidere?»

Guardai le armi. Erano arrugginite, rovinate; eccettuato il vecchio, magnifico spadone che era appartenuto a mio padre: gli era stato dato da suo padre che l’aveva avuto dal padre, e così via fino al tempo di san Luigi. Lo spadone del signore, che io, il settimo figlio, avevo usato quella lontana mattina quando m’ero avventurato come un principe medievale per uccidere i lupi.

«Ma chi ucciderò?» chiesi.

Si avvicinò. Il suo viso era immensamente dolce, traboccante d’innocenza. Le sopracciglia si accostarono: per un momento apparve una sottile ruga verticale. Poi la fronte si spianò.

«Vorrei che mi obbedissi senza fare domande», disse dolcemente. «Poi la comprensione verrà. Ma non è tua abitudine obbedire.»

«No», confessai. «Non sono mai stato capace di obbedire a lungo a qualcuno.»

«Così intrepido», disse sorridendo.

Aprì con grazia la mano destra. All’improvviso teneva la spada. Mi sembrava di aver sentito l’arma muoversi verso di lei, con un minimo cambiamento d’atmosfera, niente di più. Fissai il fodero gemmato e la grande impugnatura di bronzo che, naturalmente, era una croce. Era ancora appesa alla cintura, la cintura che avevo acquistato in un’estate lontana, una cintura di cuoio e di ferro intrecciato.

Era un’arma enorme, fatta per sferrare colpi mortali, e non soltanto fendenti e affondi. Ne ricordavo il peso, come mi indolenziva il braccio mentre l’avventavo contro i lupi che mi assalivano. Spesso, in battaglia, i cavalieri avevano brandito a due mani quelle armi.

Ma cosa sapevo di quelle battaglie? Non ero mai stato un cavaliere. Con quell’arma avevo trapassato un animale. Il mio unico momento di gloria mortale: e che cosa mi aveva procurato? L’ammirazione di un maledetto succhiatore di sangue che aveva deciso di scegliermi come erede.