La regina mise la spada nelle mie mani.
«Ora non è pesante, mio principe», disse. «Sei immortale. Veramente immortale. Hai in te il mio sangue. E userai per me le tue nuove armi come un tempo usasti questa spada.»
Un brivido violento mi scosse quando toccai la spada; era come se l’arma conservasse una memoria latente di ciò cui aveva assistito. Rividi i lupi. Vidi me stesso nella foresta gelata e annerita, pronto a uccidere.
E vidi me stesso un anno dopo a Parigi, morto e immortale. Un mostro, e a causa di quei lupi. «Uccisore dei lupi», mi aveva chiamato il vampiro. Mi aveva scelto in mezzo al gregge perché io avevo ucciso quei lupi maledetti! E avevo portato con tanto orgoglio la loro pelliccia per le vie invernali di Parigi.
Come potevo provare, adesso, una simile amarezza? Avrei preferito essere morto e sepolto nel cimitero del villaggio? Guardai di nuovo la collina coperta di neve. Non stava accadendo di nuovo la stessa cosa? Èro amato per ciò che ero stato in quei primi, spensierati anni mortali. Chiesi di nuovo. «Ma chi o che cosa dovrò uccidere?»
Non ebbi risposta.
Pensai di nuovo a Baby Jenks, quella piccola creatura patetica, e a tutti i bevitori di sangue che adesso erano morti. Avevo voluto una guerra con loro, una piccola guerra. Ed erano morti tutti. Tutti quelli che avevano risposto al grido di battaglia… morti. Vedevo bruciare la casa della congrega a Istanbul; vedevo colui che Akasha aveva sorpreso e bruciato lentamente, e che aveva lottato e l’aveva maledetta. Piangevo di nuovo.
«Sì, ti ho sottratto il tuo pubblico», disse la regina. «Ho bruciato l’arena dove cercavi di brillare. Ho rubato quella battaglia! Ma non capisci? Ti offro cose più splendide di quelle che hai cercato di ottenere. Ti offro il mondo, mio principe.»
«E come?»
«Arresta le lacrime che hai sparso per Baby Jenks e per te stesso. Pensa ai mortali per cui dovresti piangere. Immagina tutti coloro che hanno sofferto nel corso dei secoli… vittime della carestia, delle privazioni e delle violenze incessanti. Vittime di ingiustizie infinite e di battaglie interminabili. Come puoi piangere per una razza di mostri che, senza una guida e senza uno scopo, hanno compiuto la mossa del diavolo contro ogni mortale incontrato per caso?»
«Lo so. Capisco…»
«È davvero così? Oppure ti ritrai di fronte a queste cose per condurre i tuoi giochi simbolici? Simbolo del male nella tua musica rock. Non è nulla, mio principe, assolutamente nulla.»
«Perché non mi hai ucciso come gli altri?» chiesi, depresso e bellicoso. Strinsi nella destra l’impugnatura della spada e credetti di scorgervi ancora il sangue coagulato del lupo. Liberai la lama dal fodero di cuoio. Ah, sì, il sangue del lupo. «Non sono migliore di loro, vero?» chiesi. «Perché risparmiare alcuni di noi?»
La paura mi paralizzò. Una paura terribile per Gabrielle e Louis e Armand. Per Marius. E persino per Pandora e Mael. Paura per me stesso. Non esiste un essere che non si batta per la vita, anche quando non ha una giustificazione. Io volevo vivere, l’avevo sempre voluto.
«Vorrei che mi amassi», sussurrò teneramente la regina. La sua voce. In un certo senso era come la voce di Armand, una voce che parlava accarezzando, che ti attirava a sé. «Perciò ti dedico il mio tempo», continuò. Mi posò le mani sulle braccia e mi guardò negli occhi. «Voglio che tu capisca. Sei il mio strumento! E lo saranno anche gli altri, se sono saggi. Non capisci? C’è un disegno in tutto ciò: la tua venuta, il mio risveglio. Perché ora, finalmente, si potranno realizzare le speranze dei millenni. Guarda la piccola città, laggiù, e questo castello diroccato. Questa potrebbe essere Betlemme, mio principe, mio salvatore. E insieme realizzeremo tutti i sogni più durevoli del mondo.»
«Ma com’è possibile?» chiesi. Capiva quant’ero spaventato? Capiva che le sue parole mi spingevano dalla paura al terrore? Sì, indubbiamente.
«Ah, sei così forte, giovane principe», mi disse. «Ma eri destinato a me. Nulla può sconfìggerti. Hai paura e non hai paura. Ti ho visto soffrire per un secolo, ti ho visto diventare debole e discendere nella terra per dormire, e poi ti ho visto risorgere, a immagine della mia resurrezione.»
Chinò la testa come se ascoltasse un suono molto lontano. Le voci che si levavano. Anch’io le udivo, forse perché le udiva lei. Sentivo il clamore. Poi, infastidito, le scacciai.
«Così forte», disse la regina. «Non possono trascinarti tra loro, le voci: ma non ignorare questo potere, perché è importante come gli altri che possiedi. Ti pregano come hanno sempre pregato me.»
Comprendevo ciò che intendeva dire. Ma non volevo ascoltare le preghiere. Che potevo fare per loro? Cos’avevano a che fare le preghiere con ciò che ero?
«Per secoli è stato il mio unico conforto», continuò la regina. «Ascoltavo per ore, per settimane, per anni. Nei primi tempi mi sembrava che le voci avessero intessuto un sudario per fare di me una cosa morta e sepolta. Poi imparai ad ascoltare più attentamente. Imparai a selezionare una voce tra le tante, come se fosse un filo in un groviglio. Ascoltavo quell’unica voce, e per suo mezzo conoscevo il trionfo e la rovina di un’anima.»
La fissai in silenzio.
«Con il trascorrere degli anni acquisii un potere più grande: abbandonare invisibilmente il mio corpo e accostarmi al mortale che ascoltavo per essere vista dai suoi occhi. Mi muovevo nel sole e nelle tenebre; soffrivo, conoscevo la fame e il dolore. A volte entravo nei corpi degli immortali, come ho fatto con Baby Jenks. Spesso quell’immortale era Marius, l’egoista, vanitoso Marius che confonde l’avidità con il rispetto, ed è sempre abbagliato dalle creazioni decadenti di un modo di vivere egoista quanto lui. Oh, non soffrire così. L’amavo. L’amo anche ora: ha avuto cura di me. Il mio custode.» La voce divenne amara, solo per quell’istante. «Ma più spesso mi aggiravo fra i poveri e i sofferenti. Aspiravo alla crudezza della vera vita.»
S’interruppe; la sua vista si annebbiò, le sopracciglia si congiunsero e le lacrime le riempirono gli occhi. Conoscevo il potere di cui parlava, ma solo in parte. Desideravo confortarla, ma quando tesi le braccia per stringerla mi accennò di star fermo.
«Dimenticavo chi ero, dov’ero», continuò. «Ero quell’essere, l’essere del quale avevo scelto la voce. A volte per anni. Poi ritornava l’orrore, la consapevolezza di essere una cosa immobile e senza scopo, condannata a restare in eterno in un sacrario dorato! Immagini l’orrore di destarmi all’improvviso di fronte a questa rivelazione? Comprendere che tutto ciò che hai visto, tutto ciò che sei stato è soltanto un’illusione, l’osservazione della vita di un altro? Ritornavo a me stessa. Ridiventavo ciò che vedi davanti a te. L’idolo con un cuore e un cervello.»
Annuii. Secoli prima, quando l’avevo vista per la prima volta, avevo immaginato una sofferenza indicibile racchiusa dentro di lei. Avevo immaginato tormenti inesprimibili. E non avevo sbagliato.
«Sapevo che ti teneva là», dissi. Alludevo a Enkil. Enkil che ora non c’era più; era stato annientato. Un idolo caduto. Ricordavo il momento nel sacrario, quando avevo bevuto da lei, ed Enkil era venuto a riprenderla, e quasi mi aveva finito. Aveva saputo ciò che ella intendeva fare? O già allora aveva perduto completamente la ragione?
Per tutta risposta, la regina sorrise. I suoi occhi brillavano mentre guardava nel buio. La neve aveva ripreso a cadere e turbinava quasi magicamente, coglieva la luce delle stelle e della luna e sembrava diffonderla nel mondo.
«Era destino, ciò che è accaduto», rispose finalmente Akasha. «Era destino che passassi quegli anni diventando sempre più forte, così forte, alla fine, che nessuno… nessuno può essermi eguale.» S’interruppe. Per un momento la sua convinzione parve incrinarsi. Ma poi ritrovò la sicurezza. «Alla fine era soltanto uno strumento, il mio povero e amato re, il mio compagno di tormento. La sua ragione s’era smarrita, sì. E non l’ho veramente annientato. Ho assorbito ciò che restava di lui. E a volte anch’io ero stata svuotata e silenziosa e priva di volontà quanto lo era il re. Ma per lui non c’era ritorno. Aveva avuto le sue ultime visioni. Non serviva più a nulla. È morto della morte di un dio perché questo mi ha resa più forte. Ed era destino, mio principe. Era destino dall’inizio alla fine.»