Le gemelle. La donna dai capelli rossi era nella casa, e attendeva. Gliel’aveva detto Santino. Anche Mael lo sapeva. Ma chi era? E perché lui non voleva sapere la risposta? Perché quella era l’ora più buia che avesse mai conosciuto? Il suo corpo era completamente guarito, non c’era dubbio: ma che cosa avrebbe guarito la sua anima?
Armand era in quella strana casa di legno ai piedi della montagna? Di nuovo Armand, dopo tanto tempo? Santino gli aveva parlato anche di Armand, gli aveva detto che anche gli altri, Louis e Gabrielle, erano stati risparmiati.
Mael l’osservava. «Lui ti sta aspettando», disse. «Il tuo Amadeo.» Aveva un tono rispettoso, non cinico o impaziente.
E dal grande patrimonio di ricordi che Marius portava sempre con sé emerse un momento a lungo negletto, sorprendente nella sua purezza… Mael che entrava nel palazzo di Venezia negli anni felici del secolo decimoquinto, quando Marius e Armand avevano conosciuto una felicità così grande, e Mael aveva visto il ragazzo mortale all’opera con gli altri apprendisti su un affresco che solo di recente Marius aveva affidato alle loro mani poco esperte. Era strano, com’era vivido l’odore della tempera all’uovo, l’odore delle candele e l’altro, che nel ricordo non era sgradevole e che permeava tutta Venezia, della putredine, delle acque scure e marce dei canali. «E così vorresti creare lui?» aveva chiesto Mael con schietta semplicità. «Quando sarà tempo», aveva risposto Marius. «Quando sarà tempo.» Meno di un anno dopo aveva commesso l’errore. «Vieni fra le mie braccia, ragazzo. Non posso più vivere senza di te.»
Marius guardava la casa lontana. Il mio mondo trema e io penso a lui, il mio Amadeo, il mio Armand. I sentimenti che provava erano dolceamari come la musica, le melodie mescolate dei secoli recenti, le note tragiche di Brahms e Šostakovič che aveva finito per amare.
Ma non era il momento di allietarsi per quell’incontro. Non era il momento di sentirne il calore, di rallegrarsi e di dire ad Armand tutto ciò che desiderava dire.
L’amarezza era superficiale, in confronto al suo stato d’animo attuale. Avrei dovuto annientare la Madre e il Padre. Avrei dovuto annientare tutti noi.
«Gli dèi siano ringraziati perché non l’hai fatto», disse Mael.
«E perché?» chiese Marius. «Dimmi perché.»
Pandora rabbrividì e gli cinse la vita con un braccio. Perché ciò l’incolleriva tanto? Si voltò bruscamente verso di lei; avrebbe voluto percuoterla, respingerla. Ma ciò che vide lo bloccò. Pandora non lo stava guardando; e la sua espressione era così distante, così esausta che gli fece sentire ancora di più lo sfinimento. Avrebbe voluto piangere. Il benessere di Pandora era sempre stato fondamentale per la sua sopravvivenza. Non aveva bisogno di starle vicino, anzi era meglio se non le stava vicino: ma doveva sapere che lei era in qualche luogo e continuava a esistere, e che forse un giorno si sarebbero ritrovati. Ciò che ora vedeva in lei, ciò che aveva veduto già prima, lo colmava di tristi presentimenti. Se lui provava amarezza, Pandora era in preda alla disperazione.
«Venite», disse Santino. «Ci aspettano.» Il tono era di cortesia cerimoniosa.
«Lo so», rispose Marius.
«Ah, siamo davvero un bel trio», mormorò Pandora. Era sfinita, fragile, assetata di sonno e di sogni, eppure strinse più forte Marius in un gesto protettivo.
«Posso camminare senza aiuto, grazie», disse lui con un’irritazione che gli era inconsueta, soprattutto verso Pandora.
«E allora cammina», disse lei. E per un secondo Marius riprovò l’antico calore, persino una scintilla della gaiezza d’un tempo. Pandora lo sospinse leggermente, poi s’incamminò da sola in direzione della casa.
Acidi. I suoi pensieri erano acidi mentre la seguiva. Non poteva essere utile a quegli immortali. Tuttavia si avviò con Mael e Santino nella luce che filtrava dalle finestre. La foresta di sequoie recedette nell’ombra; non si muoveva neppure una foglia. Ma lì l’aria era buona e tiepida, carica di aromi puri, e non era pungente come al nord.
Armand. Avrebbe voluto piangere.
Poi vide la donna apparire sulla soglia. Una silfide dai lunghi capelli rossi che rifulgevano nella luce del corridoio.
Non si fermò: ma provò un guizzo di paura e di comprensione. Era certamente vecchia come Akasha. Le sopracciglia chiare parevano sbiadire nella radiosità del volto. La bocca non aveva più colore. E gli occhi… In realtà gli occhi non erano suoi. No, erano stati tolti a una vittima mortale e già la tradivano. Non vedeva molto bene. Ah, la sorella accecata dei sogni, ecco chi era. E adesso sentiva la sofferenza nei nervi delicati connessi agli occhi rubati.
Pandora si fermò ai piedi della scala. Marius passò oltre, salì sotto il portico. Si fermò davanti alla donna dai capelli rossi, meravigliandosi della sua altezza, poiché era alta come lui, e della splendida simmetria del volto simile a una maschera. Indossava una veste fluente di lana nera con il collo alto e le maniche ampie. La stoffa ricadeva da una cintura di corda nera intrecciata, stretta sotto i seni. Era una veste meravigliosa: faceva apparire il suo volto più radioso e distaccato, una maschera con una luce dietro, splendente in una cornice di capelli rossi.
Ma c’era ben altro di cui meravigliarsi, ben più di quei semplici attributi che poteva aver posseduto in una forma o nell’altra seimila anni prima. Il vigore della donna lo sbalordiva, le conferiva un’aria d’infinita flessibilità e di minaccia soverchiante. Era la vera immortale, quella che non aveva mai dormito, non aveva mai taciuto, non era mai stata liberata dalla follia? Era colei che s’era aggirata con la mente razionale e i passi misurati in tutti i millenni trascorsi dalla sua nascita?
Lei gli comunicò, per quanto poteva valere, che era esattamente così.
Marius poteva vedere la sua forza incommensurabile come se fosse una luce incandescente. Tuttavia poteva percepire un’informalità immediata, grazie alla spontanea ricettività d’una mente acuta.
Ma come leggere la sua espressione? Come sapere ciò che provava veramente?
Irradiava una femminilità profonda e morbida, non meno misteriosa di tutto il resto, una tenera vulnerabilità che Marius associava esclusivamente alle donne, anche se ogni tanto la trovava in un uomo molto giovane. Nei sogni, il suo viso gli aveva ispirato tenerezza; adesso era qualcosa d’invisibile, ma non per questo meno reale. In un altro momento lo avrebbe incantato; ora si limitò a prenderne nota, così come notava le unghie dorate e gli anelli gemmati.
«Per tutti questi anni hai saputo di me», le disse compitamente in latino. «Sapevi che custodivo la Madre e il Padre. Perché non sei venuta a cercarmi? Perché non mi hai detto chi eri?»
La donna rifletté per un lungo momento prima di rispondere, e girò gli occhi sugli altri che si stavano avvicinando.
Santino aveva terrore di lei quantunque la conoscesse molto bene. E anche Mael la temeva, benché, forse, un po’ meno. Anzi, sembrava che l’amasse e fosse legato a lei, le fosse asservito. In quanto a Pandora, era semplicemente apprensiva. Si avvicinò di più a Marius come per schierarsi con lui, indiscriminatamente.
«Sì, sapevo di te», disse all’improvviso la donna. Parlava inglese moderno, ma era la voce inconfondibile della gemella del sogno, la gemella cieca che aveva gridato il nome della sorella muta, Mekare, mentre entrambe venivano chiuse dalla folla irata nei sarcofagi di pietra.
Le nostre voci non cambiano mai, pensò Marius. La voce era giovane, piacevole. Quando riprese a parlare, aveva una morbidezza reticente.
«Avrei potuto distruggere il tuo sacrario, se fossi venuta», disse la donna. «Avrei potuto seppellire il re e la regina in fondo al mare. Avrei potuto addirittura annientarli e, così facendo, annientare tutti noi. E non volevo. Perciò non ho fatto nulla. Cosa avresti voluto che facessi? Non potevo sollevarti dal tuo onere. Non potevo aiutarti. Perciò non sono venuta.»