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«La Regina dei Dannati», mormorò Marius. Maharet l’aveva detto con una strana inflessione, come se si ridestassero in lei ricòrdi terribili e spaventosi, non affievoliti dal tempo. Non erano affievoliti, come non lo erano i sogni. Percepiva di nuovo la severità di quegli esseri antichi per i quali forse il linguaggio e tutti i pensieri che governava non erano inutilmente complessi.

«Gabrielle», disse Khayman, pronunciando in modo squisito il nome, «noi non possiamo aiutare Lestat. Dobbiamo sfruttare questo tempo per fare un piano.» Si rivolse a Maharet. «I sogni, Maharet. Perché i sogni sono venuti a noi proprio adesso? È tutto ciò che desideriamo sapere.»

Vi fu un silenzio protratto. Tutti i presenti, in una forma o nell’altra, avevano conosciuto quei sogni. Avevano appena sfiorato Gabrielle e Louis, così lievemente, anzi, che prima di quella notte Gabrielle non vi aveva pensato; e Louis, spaventato da Lestat, li aveva scacciati dalla mente. Persino Pandora, che confessava di non averne conoscenza personale, aveva riferito a Marius l’avvertimento di Azim. Santino li aveva chiamati trance orride cui non poteva sottrarsi.

Marius sapeva che erano stati un incantesimo malefico per i giovani, Jesse e Daniel, crudeli quasi come lo erano stati per lui.

Tuttavia Maharet non rispose. La sofferenza nei suoi occhi era più intensa. Marius la sentiva come una vibrazione silenziosa, sentiva lo spasimo dei nervi.

Si tese leggermente in avanti e giunse le mani sul tavolo.

«Maharet», disse, «è tua sorella a inviare i sogni. Non è così?»

Nessuna risposta.

«Dov’è Mekare?» insistette Marius.

Di nuovo silenzio.

Sentiva la sofferenza in Maharet. E ancora una volta era addolorato per la brutalità del suo linguaggio. Ma se doveva esser utile, doveva spingere le cose verso una conclusione. Pensò di nuovo ad Akasha nel sacrario, anche se non sapeva perché. Pensò al sorriso sul suo volto. Pensò a Lestat… con un desiderio disperato di proteggerlo. Ma ormai Lestat era soltanto un simbolo. Un simbolo di se stesso. Di tutti loro.

Maharet lo guardò in modo stranissimo, come se per lei fosse un enigma. Poi guardò gli altri e parlò.

«Avete assistito alla nostra separazione», disse a voce bassa. «Tutti voi. L’avete visto nel sogno. Avete visto la folla circondare me e mia sorella; l’avete vista dividerci. Ci chiusero nei sarcofaghi di pietra. Mekare non poteva gridare perché le avevano tagliato la lingua, io non potevo vederla un’ultima volta perché mi avevano strappato gli occhi.

«Ma vedevo attraverso le menti di coloro che ci tormentavano. Sapevo che ci stavano portando alla riva del mare, Mekare a ovest, io a est.

«Per dieci notti andai alla deriva sulla zattera di tronchi e di pece, sepolta viva nella bara di pietra. E alla fine, quando la zattera affondò e l’acqua sollevò il coperchio di pietra, fui libera. Cieca e affamata, raggiunsi la riva a nuoto e rubai al primo povero mortale che incontrai gli occhi per vedere e il sangue per vivere.

«Ma Mekare? Era stata gettata nel grande oceano occidentale… le acque che arrivavano alla fine del mondo.

«Tuttavia a partire da quella notte la cercai; la cercai in Europa e in Asia, nelle giungle meridionali e nelle gelide terre del Nord. La cercai per secoli e secoli e finalmente attraversai l’oceano occidentale quando lo fecero i mortali, per proseguire la mia ricerca nel Nuovo Mondo.

«Non ritrovai mia sorella. Non trovai un mortale o un immortale che l’avesse vista o avesse udito il suo nome. Poi in questo secolo, negli anni dopo la seconda grande guerra, nelle giungle montane del Perù, la prova incontestabile della presenza di mia sorella fu scoperta da un archeologo solitario sulle pareti di una grotta… erano immagini create da mia sorella, figure schematiche e rozzi pigmenti che narravano la storia della nostra vita insieme e delle sofferenze a voi ben note.

«Ma quei disegni erano stati incisi nella pietra seimila anni or sono. È mia sorella mi era stata tolta seimila anni fa. Non fu mai scoperta altra prova della sua esistenza.

«Tuttavia non ho mai rinunciato alla speranza di ritrovare mia sorella. Ho sempre saputo, come può saperlo solo un gemello, che si aggira ancora su questa terra, e che non sono sola. «Ora, nelle ultime dieci notti, ho avuto per la prima volta la prova che mia sorella è ancora con me. La prova mi è giunta tramite i sogni.

«Sono i pensieri di Mekare, le immagini di Mekare, il suo rancore e la sua sofferenza.»

Silenzio. Tutti gli occhi erano fissi su di lei. Marius era ammutolito. Non osava parlare di nuovo. Ma era peggio di quanto avesse immaginato, e le implicazioni erano del tutto chiare.

L’origine dei sogni non era, quasi sicuramente, una superstite cosciente dei millenni; la visione era irradiata probabilmente da qualcuno che ormai non aveva più lucidità di un animale, nel quale la memoria è uno sprone all’azione che non comprende e non contesta. Questo poteva spiegare la nitidezza e la ripetitività.

E le visioni fuggevoli di qualcosa che si muoveva nelle giungle, ebbene, era Mekare.

«Sì», disse subito Maharet. «‘Nelle giungle. Cammina’», mormorò. «Le parole dell’archeologo morente, scribacchiate su un pezzo di carta perché le trovassi al mio arrivo. ‘Nelle giungle. Cammina.’ Ma dove?»

Fu Louis a spezzare il silenzio.

«Allora è possibile che i sogni non siano un messaggio voluto», disse con un leggero accento francese. «Forse sono soltanto le emanazioni di un’anima torturata.»

«No. Sono un messaggio», disse Khayman. «Sono un avvertimento. Sono rivolti a noi tutti e anche alla Madre.»

«Ma come puoi dirlo?» gli chiese Gabrielle. «Non sappiamo in quali condizioni sia ridotta ora la sua mente. Non sappiamo neppure se sia consapevole della nostra presenza qui.»

«Voi non conoscete tutta la storia», disse Khayman. «Ma io la conosco. Maharet ve la dirà.» Si voltò a guardare la donna.

«Io l’ho vista», disse Jesse con voce incerta, e guardò Maharet. «Ha attraversato un grande fiume. Sta venendo qui. L’ho vista! No, non è esatto. Ho visto la scena come se fossi lei.»

«Sì», rispose Marius. «Attraverso i suoi occhi.»

«Ho visto i suoi capelli rossi quando ho abbassato lo sguardo», disse Jesse. «Ho visto la giungla aprirsi dinanzi a lei a ogni passo.»

«I sogni devono essere una comunicazione», disse Mael con improvvisa impazienza. «Altrimenti, perché il messaggio sarebbe così forte? I nostri pensieri personali non sono tanto potenti. Lei alza la voce: vuol far sapere a qualcuno o a qualcosa ciò che sta pensando…»

«O forse è ossessionata e l’ossessione la spinge ad agire», rispose Marius. «E si avvia verso una certa meta.» S’interruppe per un momento. «Per riunirsi a te che sei sua sorella. Che altro potrebbe volere?»

«No», disse Khayman. «Non è questo il suo scopo.» Guardò di nuovo Maharet. «Deve mantenere una promessa fatta alla Madre: e questo è il significato del sogno.»

Per un momento Maharet lo studiò in silenzio: sembrava che quasi non sopportasse di parlare della sorella, e tuttavia si facesse forza in silenzio per la prova che si preparava.

«Noi eravamo presenti all’inizio», disse Khayman. «Noi fummo i primi figli della Madre. E in quei sogni c’è la storia degli eventi che hanno dato l’avvio a tutto.»

«Allora devi raccontare… tutto quanto», disse Marius, con tutta la gentilezza di cui era capace.