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Per la prima volta nella mia vita di mortale e d’immortale, ebbi paura di morire. Ebbi paura che lei potesse annientarmi, e con ragione, perché non avrei più potuto fare ciò che avevo appena fatto. Non potevo essere partecipe di quel disegno. E pregavo che non fosse possibile indurmi a farlo, e di trovare la forza per rifiutare.

Sentii le sue mani sulle spalle. «Voltati e guardami, Lestat», disse. Obbedii. Era la bellezza più seducente che io avessi mai veduto.

Sono tua, amor mio. Tu sei il mio unico vero compagno, il mio strumento più splendido. Lo sai, non è vero?

Di nuovo un brivido. In nome di Dio, Lestat, dove sei? Ti asterrai dal dire ciò che pensi?

«Akasha, aiutami», mormorai. «Dimmi: perché hai voluto che uccidessi? Cosa intendevi quando hai detto che i maschi saranno puniti, e che verrà un regno di pace sulla terra?» Come suonavano stupide le mie parole. La guardavo negli occhi e potevo credere che fosse la dea. Era come se traesse da me la mia convinzione, quasi fosse sangue.

Tremavo di paura. Tremavo. Compresi per la prima volta cosa significava quella parola. Cercai di dire di più ma riuscii soltanto a balbettare. E finalmente proruppi:

«In nome di quale morale verrà fatto tutto questo?»

«In nome della mia morale!» rispose. Il suo sorriso era bello come prima. «Io sono la ragione, la giustificazione, il diritto per cui viene fatto!» La voce era fredda e collerica, ma l’espressione dolce e vacua non era cambiata. «Ora ascoltami, amore», disse. «Ti amo. Mi hai destata dal lungo sonno e mi hai restituita al mio grande scopo: mi dà gioia guardarti, vedere la luce dei tuoi occhi azzurri, ascoltare il suono della tua voce. Mi ferirebbe incredibilmente vederti morire. Ma le stelle mi sono testimoni: tu mi aiuterai nella mia missione. O non sarai nulla di più dello strumento dell’inizio, come Giuda lo fu per Cristo. E io ti annienterò come Cristo annientò Giuda quando non sarai più utile!»

La rabbia mi vinse. Non seppi trattenermi. La transizione dalla paura alla collera fu rapidissima. Mi sentivo bollire.

«Ma come osi parlare così?» chiesi. «Come osi inviare per il mondo quelle anime ignoranti con simili folli menzogne?»

Mi fissò in silenzio; mi parve che stesse per colpirmi. Il suo viso ridivenne quello d’una statua e io pensai: Ecco, è venuto il momento, morirò come ho visto morire Azim. Non posso salvare Gabrielle o Louis. Non posso salvare Armand. Non opporrò resistenza perché è inutile. Non mi muoverò quando accadrà. Discenderò nel profondo di me stesso, forse, per sfuggire alla sofferenza. Troverò un’ultima illusione come Baby Jenks, e la terrò stretta a me fino a che non sarò più Lestat.

Lei non si mosse. Sul colle i fuochi si spegnevano. La neve cadeva più fitta e Akasha era divenuta come uno spettro sotto i fiocchi silenziosi, candida com’era candida la neve.

«Non hai davvero paura di nulla, vero?» mi chiese.

«Ho paura di te», dissi.

«Oh, no, non credo.»

Annuii. «Ho paura. E ti dirò che cosa sono. Un essere nocivo sulla faccia della terra, nulla di più. Un odioso uccisore d’esseri umani. Ma io so che cosa sono! Non fingo d’essere ciò che non sono affatto! Tu hai detto a quella folla ignorante d’essere la Regina del Paradiso! Come intendi riscattare quelle parole, e che conseguenze avranno in quelle menti stupide e ingenue?»

«Quanta arroganza», disse Akasha a voce bassa. «Quanta arroganza incredibile. Eppure ti amo. Amo il tuo coraggio e la tua avventatezza che da sempre è la qualità che ti riscatta. Amo persino la tua stupidità. Non capisci? Ora non esistono promesse che io non possa mantenere! Ricreerò i miti! Io sono la Regina del Paradiso. E il paradiso regnerà finalmente sulla terra. Io sono tutto ciò che dico di essere!»

«Oh, Dio, Dio!» mormorai.

«Non pronunciare queste parole inconsistenti. Non hanno mai avuto significato per nessuno. Sei alla presenza dell’unica dea che potrai mai conoscere. E sei l’unico dio che questa gente conoscerà! Bene, ora devi pensare come un dio, mio bellissimo. Devi cercare qualcosa al di là delle tue piccole ambizioni egoistiche. Non ti rendi conto di ciò che è accaduto?»

Scossi la testa. «Non so nulla. Sto perdendo la ragione.»

Rise. Ributtò all’indietro la testa e rise. «Noi siamo ciò che loro sognano, Lestat. Non possiamo deluderli. Se lo facessimo, tradiremmo la verità implicita nella terra sotto i nostri piedi.»

Si scostò. Salì sull’altura di roccia coperta di neve. Guardava la valle, il sentiero che tagliava il dirupo, i pellegrini che ritornavano indietro via via che le donne in fuga davano loro l’annuncio.

Udivo le grida echeggiare contro la parete di pietra della montagna. Udivo gli uomini che morivano laggiù mentre Akasha, invisibile, li colpiva con quella forza, quella grande forza seducente. E le donne balbettavano e parlavano di miracoli e visioni. Poi si levò il vento e parve inghiottire ogni cosa, il gran vento indifferente. Per un attimo vidi il suo volto splendido; venne verso di me. E pensai: questa è ancora la morte, è la morte che si avvicina, il bosco e i lupi, e non c’è un posto dove nascondermi. Poi i miei occhi si chiusero.

Quando mi svegliai ero in una casetta. Non sapevo come vi fossi arrivato, non sapevo quanto tempo fosse trascorso dal massacro fra i monti. Ero annegato tra le voci, e ogni tanto mi era giunto un sogno, un sogno terribile e tuttavia familiare. In quel sogno avevo visto due donne dai capelli rossi. Erano inginocchiate accanto a un altare dove giaceva un corpo, nell’attesa di compiere un rito, un rito cruciale. E mi ero sforzato disperatamente di comprendere il contenuto del sogno, perché mi sembrava che da quello dipendesse tutto: non dovevo più dimenticarlo.

Ma adesso tutto sbiadiva. Le voci, le immagini sgradite; il presente ebbe la meglio.

Il luogo dove giacevo era buio e sporco e pieno di odori immondi. Nelle piccole abitazioni intorno i mortali vivevano nella miseria, i bambini piangevano per la fame tra gli odori dei fuochi e del grasso rancido.

C’era guerra in quel luogo, una vera guerra. Non la strage della montagna, ma la guerra antiquata del secolo ventesimo. La captavo a squarci viscidi dalle menti degli afflitti… un’esistenza interminabile di massacri e di minacce, autobus incendiati, gente imprigionata all’interno che batteva contro i finestrini chiusi, camion che esplodevano, donne e bambini che fuggivano mentre le mitragliatrici sparavano.

Ero sul pavimento, come se qualcuno mi avesse lasciato cadere. E Akasha stava sulla soglia, avvolta nel mantello fino agli occhi, e scrutava nell’oscurità.

Quando mi alzai e la raggiunsi, vidi un viottolo fangoso pieno di pozzanghere e altre casupole, alcune con i tetti di lamiera, altre con i tetti formati da strati di giornali. Contro le pareti sudicie gli uomini dormivano avviluppati dalla testa ai piedi, come nei sudari. Ma non erano morti; e i ratti che cercavano di evitare lo sapevano. I ratti rosicchiavano i mantelli, e gli uomini trasalivano e sussultavano nel sonno.

Faceva caldo, e il caldo rafforzava i fetori… urina, feci, vomito di bambini morenti. Sentivo persino l’odore della fame dei bambini mentre gridavano. Sentivo l’odore delle fogne e dei cessi.

Non era un villaggio: era un luogo di tuguri e baracche e di disperazione. C’erano cadaveri fra gli abituri. Le malattie dilagavano; e i vecchi e gli infermi stavano silenziosi nel buio e non sognavano nulla, o forse sognavano la morte che era il nulla, mentre i bambini piangevano.

Dal fondo del viottolo stava arrivando un bimbo barcollante dal ventre gonfio, e urlava mentre si strofinava un occhio con un pugno.

Sembrava che non ci vedesse nell’oscurità. Andava piangendo da una porta all’altra, e la sua pelle bruna e liscia era lucida nel palpito smorzato dei fuochi.