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«Tuttavia conoscevamo la pittura; le immagini dipinte coprivano le pareti dei sacrari del dio-toro, nel villaggio.

«E la mia famiglia, che da sempre viveva nelle grotte del monte Carmelo, le ornava di dipinti che solo noi potevamo vedere. Vi tenevamo una specie di archivio. Ma lo facevamo con prudenza. Per esempio, non dipinsi mai la mia immagine fin dopo la catastrofe, quando io e mia sorella diventammo ciò che siamo ora.

«Ma per parlare della nostra gente, eravamo pacifici. Pastori, artigiani, a volte mercanti… né più, né meno. Quando le armate di Gerico andavano in guerra, a volte i nostri giovani partivano con loro, ma solo perché lo volevano. Cercavano l’avventura e la gloria. Altri andavano nelle città per vedere i grandi mercati, la maestà delle corti o lo splendore dei templi. E alcuni si recavano nei porti del Mediterraneo per vedere le grandi navi mercantili. Ma per la maggior parte, nei nostri villaggi la vita continuava senza mutamenti. Gerico ci proteggeva, quasi con indifferenza, perché era la calamità che attirava la forza dei nemici.

«Mai, mai avevamo dato la caccia agli uomini per nutrirci della loro carne. Non era una nostra usanza. E non so dirvi quale abominio sarebbe stato tale cannibalismo, l’ingestione della carne dei nemici. Perché noi eravamo cannibali, e l’ingestione della carne aveva per il nostro popolo un significato speciale… noi mangiavamo i nostri morti.»

Maharet tacque per un momento, come se volesse rendere chiaro a tutti il significato di quelle parole.

Marius rivide l’immagine delle due donne inginocchiate davanti alla mensa funebre, sentì il silenzio meridiano e la solennità del momento. Cercò di liberare la mente e di vedere soltanto il viso di Maharet.

«Dovete capire», continuò la donna. «Credevamo che alla morte lo spirito abbandonasse il corpo; ma credevamo anche che i resti di tutte le cose viventi contengono una parte del potere dopo che la vita se n’è andata. Per esempio, gli oggetti personali di un uomo conservano una parte della sua vitalità, e la conservano di sicuro il corpo e le ossa. Naturalmente quando ingerivamo la carne dei nostri morti anche questo residuo veniva consumato.

«Ma la vera ragione per cui mangiavamo i nostri morti non era il rispetto. Per noi era il modo giusto di trattare i resti di coloro che amavamo. Prendevamo in noi i corpi di coloro che ci avevano dato la vita, e dai quali erano venuti i nostri corpi. Così si compiva un ciclo. E i sacri resti di coloro che amavamo erano salvati dall’orrore della putrefazione e dal venire divorati dalle bestie selvatiche o bruciati come combustibili o rifiuti.

«In questo, se riflettete bene, c’è una grande logica. Ma l’importante è capire che ciò faceva parte della nostra realtà come popolo. Il sacro dovere d’ogni figlio era quello di consumare i resti dei genitori; il sacro dovere della tribù era quello di consumare i morti.

«Nel nostro villaggio non moriva uomo, donna o bambino il cui corpo non venisse consumato dai parenti; nel nostro villaggio non c’era uomo, donna o bambino che non avesse consumato la carne dei morti.»

Maharet tacque di nuovo e girò lo sguardo sui presenti prima di continuare.

«Non era un’epoca di grandi guerre», disse. «Gerico era in pace da moltissimo tempo. E anche Ninive era in pace.

«Ma lontano, a sud-ovest nella valle del Nilo, quel popolo selvaggio faceva guerra come aveva sempre fatto ai popoli delle giungle meridionali, per catturare prigionieri da divorare. Infatti, non solo divoravano i loro morti con il dovuto rispetto come facevamo noi, ma mangiavano anche i corpi dei nemici e se ne gloriavano. Credevano che la forza del nemico passasse nel loro corpo quando lo divoravano. Inoltre, amavano il sapore della carne umana.

«Noi li disprezzavamo per la ragione che ho spiegato. Com’era possibile che qualcuno desiderasse la carne di un nemico? Ma forse la differenza principale tra noi e gli abitanti della valle del Nilo non stava nel fatto che mangiavano i nemici, ma nel fatto che erano bellicosi mentre noi eravamo pacifici. Non avevamo nemici.

«Ora, quando io e mia sorella compimmo i sedici anni, nella valle del Nilo vi fu un grande cambiamento: o almeno così ci fu detto.

«L’anziana regina morì senza una figlia che tramandasse il sangue reale. Presso molti popoli antichi il sangue reale veniva tramandato solo per linea femminile. Poiché nessun maschio può mai essere certo della paternità della creatura della moglie, era la regina o la principessa a detenere il diritto divino al trono. Perciò i faraoni egizi dei tempi più tardi sposavano spesso le sorelle per assicurarsi il diritto reale.

«E così sarebbe stato per il giovane re Enkil se avesse avuto una sorella, ma non l’aveva. Non aveva neppure una cugina o una zia da sposare. Ma era giovane, e ben deciso a regnare sulla sua terra. Finalmente scelse una sposa, non della sua gente, ma della città di Uruk, nella valle del Tigri e dell’Eufrate.

«La sposa era Akasha, una bellezza di sangue reale, adoratrice della grande dea Inanna; e poteva portare nel regno di Enkil la sapienza della sua terra. O almeno così si diceva nei mercati di Gerico e Ninive e nelle carovane che venivano a scambiare le merci con noi.

«Ora, gli abitanti della valle del Nilo erano già agricoltori, ma tendevano a trascurare i campi per fare le guerre, allo scopo di assicurarsi la carne umana. Ciò fece inorridire la bella Akasha, che subito si adoperò per distoglierli da questa usanza barbara.

«Probabilmente portò con sé anche la scrittura, poiché il popolo di Uruk la conosceva; ma questo non posso dirlo con certezza, dato che noi disprezzavamo la scrittura. Forse gli egizi avevano già incominciato da soli a scrivere.

«Non potete immaginare con quanta lentezza queste cose influiscano su una cultura. Le documentazioni delle tasse possono venire conservate per generazioni, prima che qualcuno affidi a una tavoletta d’argilla le parole di una poesia. Una tribù può coltivare pepe ed erbe per duecento anni prima che a qualcuno venga in mente di fare altrettanto con il grano o il mais. Come sapete, gli indios sudamericani avevano giocattoli con le ruote quando arrivarono gli europei, e avevano gioielli di metallo. Ma non usavano la ruota in nessun altro modo, e non usavano il metallo per le armi. Perciò furono sconfitti quasi subito dagli europei.

«Non conosco comunque la storia della conoscenza che Akasha portò con sé da Uruk. So che il nostro popolo sentì parlare del divieto di praticare il cannibalismo in tutta la valle del Nilo, e seppe che chi disobbediva veniva messo a morte. Le tribù che per generazioni erano andate a caccia di carne umana erano infuriate perché non si potevano più divertire; ma ancora più grande era lo sdegno di coloro che avevano sempre mangiato i loro morti. Una cosa era non andare a caccia: ma affidare i propri antenati alla terra era per loro un orrore come lo sarebbe stato per noi.

«Quindi, perché fosse obbedito l’ordine di Akasha, il re decretò che tutti i morti venissero trattati con unguenti e avvolti in bende. Non solo non si poteva divorare la carne della madre o del padre, ma il corpo doveva essere conservato in costosi drappi di lino, essere mostrato in modo che tutti lo vedessero, e quindi posto nella tomba con le dovute offerte e gli incantesimi dei sacerdoti.

«E questo doveva essere fatto al più presto possibile, per fare in modo che nessuno si impadronisse del corpo.

«E per meglio diffondere questa usanza, Akasha ed Enkil convinsero il popolo che gli spiriti dei morti sarebbero stati più felici nel regno in cui erano giunti se i loro corpi fossero stati conservati in quel modo. In altre parole, dicevano ai sudditi: ‘I vostri amati avi non sono trascurati, anzi sono ben conservati’.