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«Quando venimmo a saperlo giudicammo tutto ciò molto divertente: avvolgere i morti e chiuderli in camere arredate, al di sopra o al di sotto delle sabbie del deserto! Ci sembrava divertente che gli spiriti dei defunti fossero aiutati dalla perfetta conservazione dei loro corpi sulla terra. Infatti, come sanno tutti coloro che comunicano con i morti, per loro è meglio dimenticare il corpo: solo quando abbandonano l’immagine terrena possono ascendere a un piano superiore.

«E adesso in Egitto, nelle tombe dei ricchi e dei pii, giacevano le mummie dalle carni imputridite.

«Se qualcuno ci avesse detto che l’usanza della mummificazione avrebbe messo radici in quella cultura, sarebbe stata praticata per quattromila anni e sarebbe diventata un grande mistero per tutto il mondo, al punto che nel ventesimo secolo i bambini sarebbero andati nei musei per vedere le mummie… ebbene, non l’avremmo creduto possibile.

«Per noi, tuttavia, non aveva molta importanza. Eravamo lontanissimi dalla valle del Nilo. Non riuscivamo neppure a immaginare come fosse quella gente. Sapevamo che la loro religione veniva dall’Africa, che adoravano il dio Osiride e il dio del sole Ra, e anche divinità animali. Ma per la verità non li comprendevamo. Non capivamo la loro terra con le inondazioni e i deserti. Quando tenevamo fra le mani gli splendidi oggetti prodotti da loro, conoscevamo un vago barlume della loro personalità: ma era per noi aliena. Li commiseravamo perché non potevano mangiare i loro morti.

«Quando chiedevamo di loro agli spiriti, questi sembravano trovare gli egizi molto divertenti. Dicevano che avevano ‘belle voci’, che sapevano dire ‘belle parole’ e che era piacevole visitare i loro templi e gli altari. Amavano la lingua egizia. Poi si disinteressavano del problema e divagavano come facevano spesso.

«Ciò che dicevano ci affascinava, ma non ci sorprendeva. Sapevamo che gli spiriti gradivano le nostre parole e i nostri canti e che in Egitto recitavano la parte degli dèi: lo facevano spesso.

«Con il passare degli anni venimmo a sapere che Enkil, per unificare il regno e piegare la ribellione dei cannibali, aveva radunato un grande esercito per intraprendere conquiste al nord e al sud. Aveva messo in mare molte navi. Era un vecchio sistema: mandare tutti a combattere un nemico perché smettessero di litigare in patria.

«Ma questo che aveva a che fare con noi? La nostra era una terra di serenità e di bellezza, d’alberi carichi di frutti e di campi di grano spontaneo che ognuno poteva mietere con la falce. La nostra era una terra d’erba verde e di brezze fresche. Non c’era nulla che qualcuno potesse aspirare a toglierci. O almeno così credevamo.

«Io e mia sorella continuavamo a vivere in pace sulle dolci pendici del monte Carmelo; spesso parlavamo con nostra madre o fra noi, in silenzio o con poche parole segrete che capivamo perfettamente; e apprendevamo da nostra madre tutto ciò che sapeva degli spiriti e del cuore degli uomini.

«Bevevamo le pozioni dei sogni che nostra madre preparava con le piante della montagna, e nei sogni e in trance tornavamo nel passato e parlavamo con le nostre antenate, le grandi streghe di cui conoscevamo i nomi. Richiamavamo sulla terra i loro spiriti abbastanza a lungo perché ci rivelassero altra conoscenza. Inoltre viaggiavamo fuori dai nostri corpi e volavamo in alto sopra la terra.

«Potrei impiegare ore ed ore narrandovi ciò che vedevamo in quelle trance. Una volta io e Mekare vagammo tenendoci per mano nelle vie di Ninive, e vedemmo meraviglie che non avevamo mai neppure immaginato. Ma sono cose che ormai non hanno importanza.

«Permettetemi solo di dire cosa significava per noi la compagnia degli spiriti, la dolce armonia in cui vivevamo con tutte le cose e con gli stessi spiriti. E in certi momenti l’amore degli spiriti era per noi palpabile, così come i mistici cristiani hanno descritto l’amore di Dio e dei suoi santi.

«Vivevamo felici insieme, io, mia sorella e nostra madre. Le grotte dei nostri antenati erano calde e asciutte. Avevamo tutto ciò che ci serviva: abiti splendidi e gioielli, deliziosi pettini d’avorio e sandali di cuoio portati come offerte dal popolo, perché nessuno ci pagava mai per ciò che facevamo.

«Ogni giorno la gente del villaggio veniva a consultarci; e noi rivolgevamo quegli interrogativi agli spiriti. Cercavamo di vedere il futuro, una cosa che ovviamente gli spiriti possono fare, dato che certe cose tendono a seguire un corso ineluttabile.

«Leggevamo nelle menti con le nostre facoltà telepatiche e davamo i consigli migliori. Ogni tanto ci portavano gli invasati, e noi scacciavamo il demonio, o lo spirito maligno. E quando una casa era infestata, vi andavamo e ordinavamo allo spirito malefico di allontanarsi.

«Davamo le pozioni dei sogni a chi le chiedeva: allora cadevano in trance, oppure si addormentavano e sognavano immagini vivide che poi ci chiedevano d’interpretare.

«Per questo non avevamo veramente bisogno degli spiriti, anche se a volte cercavamo il loro consiglio. Usavamo i nostri poteri di comprensione e di visione profonda, e spesso le informazioni a noi tramandate circa i significati delle varie immagini.

«Ma il nostro miracolo più grande, che non potevamo mai garantire e che richiedeva l’impiego di tutte le nostre forze, era quello di chiamare la pioggia.

«Compivamo il miracolo in due modi fondamentali: la ‘piccola pioggia’ che era soprattutto simbolica, una dimostrazione del potere utile delle anime dei nostri, oppure la ‘grande pioggia’, necessaria per le colture e molto difficile da realizzare.

«Per entrambe bisognava corteggiare gli spiriti, chiamarli per nome, chiedere che si radunassero, si concentrassero e usassero la loro forza al nostro comando. La piccola pioggia veniva spesso realizzata dai nostri spiriti familiari, quelli che amavano molto me e Mekare, avevano amato nostra madre e sua madre e tutte le nostre antenate, ed erano sempre disposti, per amore, anche ai compiti più difficili.

«Ma per la grande pioggia erano necessari molti spiriti, e dato che alcuni di loro sembravano detestarsi e disapprovare la cooperazione, era necessario ricorrere all’adulazione. Dovevamo cantare e danzare. Ci impegnavamo per ore mentre gli spiriti a poco a poco mostravano interesse, accorrevano, s’innamoravano dell’idea e finalmente si mettevano all’opera.

«Io e Mekare riuscimmo a realizzare la grande pioggia tre volte soltanto. Ma era bellissimo vedere le nubi raccogliersi sopra la valle, veder scendere i grandi scrosci d’acqua. Tutta la nostra gente correva fuori sotto l’acquazzone e la terra stessa sembrava schiudersi e ringraziare.

«Facevamo spesso, invece, la piccola pioggia; lo facevamo per gli altri, o per la nostra gioia.

«Ma fu la grande pioggia a diffondere la nostra fama. Eravamo sempre state conosciute come le streghe della montagna; ma ora la gente veniva a noi dalle città del lontano nord, da terre di cui non conoscevamo il nome.

«Gli uomini attendevano nel villaggio il loro turno per salire sulla montagna, bere la pozione e attendere che esaminassimo i loro sogni. E naturalmente il villaggio dava loro cibo e bevande e accettava in cambio un’offerta, e tutti ci guadagnavano. In ciò non eravamo diverse dagli psicologi di oggi: studiavamo le immagini e le interpretavamo, cercavamo una verità nel subconscio, e i miracoli della piccola e della grande pioggia servivano a rafforzare la fede degli altri nelle nostre capacità.

«Un giorno, mi pare mezzo anno prima che morisse nostra madre, ci pervenne un messaggio. Un latore l’aveva portato per ordine del re e della regina di Kemet, che era il nome dato dagli egizi alla loro terra. Era scritto su una tavoletta d’argilla, come usavano a Gerico e Ninive, e c’erano piccoli segni incisi, l’inizio di quella che più tardi gli uomini avrebbero chiamato scrittura cuneiforme.

«Naturalmente non eravamo in grado di leggere, e anzi ci sembrava una cosa spaventosa. Pensavamo che fosse una maledizione: non volevamo toccarla, ma occorreva farlo se volevamo scoprire ciò che dovevamo.