«Dopo dieci ore, quando centinaia di persone del nostro villaggio e di quelli vicini erano sfilati davanti alla salma, la preparammo per il banchetto funebre. Il sacerdote avrebbe reso questo onore per ogni altro morto del villaggio. Ma noi eravamo streghe e nostra madre era una strega; e noi sole potevamo toccarla. Alla luce delle lampade a olio, in segreto, io e mia sorella togliemmo la veste a nostra madre e coprimmo completamente il corpo di fiori e foglie fresche. Le aprimmo il cranio e sollevammo con cura la calotta in modo che restasse intatta la fronte, quindi estraemmo il cervello e lo mettemmo su un piatto insieme agli occhi. Con un’incisione altrettanto accurata estraemmo il cuore e lo ponemmo su un altro piatto. Coprimmo entrambi i piatti con pesanti cupole di creta per proteggerli.
«Gli abitanti del villaggio vennero quindi a erigere un forno d’argilla intorno al corpo di nostra madre, sulla lastra di pietra e intomo ai piatti, e si accese il fuoco fra i sassi su cui poggiava la lastra, per incominciare la cerimonia.
«Continuò per tutta la notte. Gli spiriti si erano acquietati perché lo spettro di mia madre non c’era più. Non credo che il corpo avesse importanza per loro; ciò che stavamo facendo contava tuttavia per noi.
«Poiché eravamo streghe e nostra madre era una strega, noi sole avremmo consumato la sua carne. Spettava a noi secondo la consuetudine e il diritto: Gli abitanti del villaggio non avrebbero partecipato al banchetto come in altri casi, quando restavano due soli discendenti del defunto. Anche se occorreva molto tempo, avremmo consumato noi il corpo di nostra madre. I compaesani avrebbero vegliato in nostra compagnia.
«Quella notte, mentre i resti di mia madre venivano preparati nel forno, io e mia sorella deliberammo per quel che riguardava il cuore e il cervello. Naturalmente avremmo diviso quegli organi, e dovevamo decidere chi li avrebbe presi, perché avevamo convinzioni precise circa ciò che vi risiedeva.
«Per molti popoli di quel tempo l’importante era il cuore. Per gli egizi, ad esempio, il cuore era la sede della coscienza. Era così anche per la gente del nostro villaggio; ma noi streghe credevamo che il cervello fosse la sede dello spirito umano e cioè quella parte spirituale di ogni uomo e di ogni donna che era simile agli spiriti dell’aria. E la nostra convinzione che il cervello fosse importante derivava dal fatto che a esso erano collegati gli occhi, organi della vista. E come streghe, noi vedevamo: vedevamo nei cuori, vedevamo il futuro e il passato. ‘Veggente’ era la parola della nostra lingua che indicava ciò che eravamo: era il termine che significava ‘strega’.
«Ma in realtà i nostri erano discorsi cerimoniali: credevamo che lo spirito di nostra madre se ne fosse andato. Per rispetto nei suoi confronti, avremmo consumato quegli organi perché non imputridissero. Fu facile, quindi, pervenire a un accordo: Mekare avrebbe preso il cervello e gli occhi, io avrei preso il cuore.
«Mekare era la strega più potente, era nata per prima ed era quella che prendeva sempre l’iniziativa, che parlava immediatamente e si comportava come la sorella maggiore, come fa invariabilmente una di due gemelle. Mi sembrava giusto che fosse lei ad avere il cervello e gli occhi; e io che ero sempre stata più calma e più lenta, avrei preso l’organo associato con il sentimento profondo e l’amore… il cuore.
«Eravamo soddisfatte della divisione; e mentre il cielo si schiariva dormimmo per qualche ora, indebolite dalla fame e dal digiuno che doveva prepararci per il banchetto.
«Un po’ prima dell’alba gli spiriti ci destarono. Avevano chiamato di nuovo il vento. Uscii dalla grotta; il fuoco ardeva nel forno. Gli abitanti del villaggio che lo sorvegliavano s’erano addormentati. Dissi irosamente agli spiriti di acquietarsi. Ma uno di essi, quello che più amavo, rispose che sulla montagna s’erano radunati moltissimi stranieri, impressionati dal nostro potere e pericolosamente incuriositi.
«‘Quegli uomini vogliono qualcosa da te e da Mekare’, mi disse lo spirito. ‘E non hanno buone intenzioni.’
«Gli dissi che gli stranieri venivano spesso, ed era una cosa da nulla; perciò doveva stare tranquillo e lasciarci fare ciò che dovevamo. Ma poi andai a parlare con uno degli uomini del villaggio e chiesi che gli abitanti si tenessero pronti in caso di problemi, e che portassero con loro le armi quando si sarebbero radunati per l’inizio del banchetto.
«Non era una richiesta insolita. Molti uomini andavano sempre in giro armati. I pochi che erano stati soldati professionisti o che potevano permettersi di acquistare le spade, le portavano spesso; e chi aveva un coltello lo teneva alla cintura.
«Ma nel complesso non ero preoccupata; dopotutto, nel nostro villaggio venivano stranieri da luoghi molto lontani, ed era naturale che accorressero per un avvenimento eccezionale, la morte di una strega.
«Voi sapete, comunque, ciò che doveva accadere. L’avete visto in sogno. Avete visto gli abitanti del villaggio radunarsi intorno allo spiazzo mentre il sole saliva verso lo zenith. Forse avete visto togliere i mattoni dal forno, oppure soltanto il corpo di nostra madre, scuro e raggrinzito e tuttavia sereno come nel sonno, deposto sulla lastra di pietra. Avete visto i fiori avvizziti che la coprivano, avete visto il cuore, il cervello e gli occhi sui piatti.
«Ci avete viste inginocchiate ai lati del corpo di nostra madre, e avete sentito i musici che cominciavano a suonare.
«Ciò che non avete veduto, ma che ora sapete, è che per migliaia di anni la nostra gente s’era radunata per quei banchetti. Da migliaia di anni vivevamo nella valle e sulle pendici del monte dove l’erba cresceva alta e i frutti cadevano dagli alberi. Era la nostra terra, la nostra tradizione, il nostro momento.
«Il nostro momento sacro.
«E mentre io e Mekare stavamo inginocchiate una di fronte all’altra, abbigliate delle nostre vesti più belle e ornate dei gioielli di nostra madre oltre che dei nostri, vedevamo davanti a noi non i moniti degli spiriti, o l’angoscia di nostra madre quando aveva toccato la tavoletta del re e della regina di Kemet. Vedevamo le nostre vite, che speravamo lunghe e felici, da vivere in mezzo al nostro popolo.
«Non so per quanto tempo restammo inginocchiate a preparare le nostre anime. Ricordo che finalmente sollevammo all’unisono i piatti contenenti gli organi di nostra madre. I musici cominciarono a suonare. La melodia del flauto e del tamburo riempiva l’aria intorno a noi; sentivamo il respiro degli abitanti del villaggio e il canto degli uccelli.
«E poi il male discese su di noi, e venne così all’improvviso, con un calpestio di piedi e le stridule grida di guerra dei soldati egizi, che quasi non ci rendemmo conto di quel che accadeva. Ci gettammo sul corpo di nostra madre cercando di proteggere il sacro banchetto; ma subito ci strapparono via e noi vedemmo i piatti cadere nella polvere, la lastra rovesciarsi!
«Udii Mekare urlare come mai avevo udito urlare un essere umano. Ma anch’io urlavo nel vedere il corpo di mia madre gettato nella cenere.
«Le maledizioni mi riempivano gli orecchi: gli uomini che ci accusavano di essere mangiatrici di carne umana, ci chiamavano selvagge da passare a fil di spada.
«Nessuno, tuttavia, ci fece del male. Nonostante le nostre grida e la nostra resistenza ci legarono riducendoci all’impotenza, anche se tutti i nostri venivano massacrati davanti ai nostri occhi. I soldati calpestarono il corpo di nostra madre, il suo cuore, il suo cervello e i suoi occhi. Calpestarono le ceneri mentre le loro coorti massacravano gli uomini, le donne e i bambini del nostro villaggio.