«E poi, nel coro delle grida e dei gemiti delle centinaia di persone che morivano sul fianco della montagna, sentii Mekare chiamare i nostri spiriti alla vendetta, chiamarli perché punissero i soldati per ciò che avevano fatto.
«Ma cos’erano il vento e la pioggia per uomini simili? Gli alberi tremavano, sembrava che la terra stessa tremasse, le foglie riempivano l’aria come la notte precedente. Le pietre rotolavano dalla montagna, si levavano nubi di polvere. Ma non vi fu altro che un momento d’esitazione prima che re Enkil in persona si facesse avanti e dicesse ai suoi soldati che si trattava soltanto di trucchi e che i nostri demoni non potevano fare di più.
«L’ammonimento era fin troppo vero, e il massacro continuò. Io e mia sorella eravamo pronte a morire. Ma non ci uccisero. Non intendevano ucciderci. E mentre ci trascinavano via vedemmo il nostro villaggio che bruciava, vedemmo i campi di grano selvatico che bruciavano, vedemmo tutti gli uomini e le donne della tribù che giacevano morti, e comprendemmo che i loro corpi sarebbero rimasti abbandonati perché li consumassero le belve di terra e del cielo.»
Maharet s’interruppe. Aveva giunto le mani: si toccò la fronte con la punta delle dita, prima di proseguire. La sua voce era più bassa e roca, ma decisa quanto prima.
«Che cos’è una piccola nazione di villaggi? Che cos’è un popolo… o una sola vita?
«Sotto la terra sono sepolti mille popoli. E anche la nostra gente è ancora oggi lì sepolta.
«Tutto è stato devastato in un’ora. Un esercito aveva massacrato i pastori, le donne, i giovani indifesi. I villaggi erano distrutti, le capanne erano state abbattute e tutto ciò che poteva ardere era stato dato alle fiamme.
«Sentivo la presenza degli spiriti dei morti che aleggiavano sopra la montagna e sul villaggio situato ai piedi: una grande massa di spiriti, agitati e confusi dalla violenza subita che si aggrappava alla terra per il terrore e la sofferenza, mentre altri ascendevano dalla carne per non soffrire più.
«E che potevano fare gli spiriti?
«Seguirono il corteo fino all’Egitto; tormentavano gli uomini che ci tenevano legate e ci portavano in lettiga, due donne piangenti strette l’una all’altra nella paura e nell’angoscia.
«Ogni notte, quando i soldati si accampavano, gli spiriti mandavano il vento ad abbattere le tende e a disperderli. Tuttavia il re consigliava ai suoi di non avere paura. Diceva che gli dèi d’Egitto erano più potenti dei demoni e delle streghe. E dato che gli spiriti, effettivamente, facevano tutto ciò di cui erano capaci senza per questo peggiorare la situazione, i soldati obbedivano.
«Ogni notte il re ci faceva condurre alla sua presenza. Parlava la nostra lingua, che allora era molto comune nel mondo ed era usata nella valle del Tigri e dell’Eufrate e lungo i fianchi del monte Carmelo. ‘Voi siete grandi streghe’, diceva con voce gentile e sincera. ‘Per questo vi ho risparmiato la vita anche se siete cannibali come la vostra gente, e siete state colte sul fatto da me e dai miei uomini. Vi ho risparmiate perché voglio avere il beneficio della vostra sapienza. Vorrei imparare da voi, e lo vorrebbe anche la mia regina. Ditemi che cosa posso fare per alleviare le vostre sofferenze, e io lo farò. Ora siete sotto la mia protezione: sono il vostro re.’
«Noi gli stavamo davanti piangendo e rifiutando di incontrare il suo sguardo, e tacevamo, fino a che si stancava e ci mandava a dormire nella piccola lettiga, un rettangolo di legno dalle piccole finestre dove avevamo sempre dormito dopo la nostra cattura.
«Quando restavamo sole, io e mia sorella comunicavamo in silenzio, o per mezzo del nostro linguaggio segreto di gesti e di parole abbreviate che eravamo le uniche a comprendere. Ricordavamo ciò che gli spiriti avevano detto a nostra madre; ricordavamo che si era ammalata dopo l’invio del messaggio del re di Kemet e che non s’era più ripresa. Tuttavia non avevamo paura.
«Eravamo troppo addolorate per aver paura. Era come se fossimo già morte. Avevamo visto massacrare la nostra gente, avevamo visto profanare il corpo di nostra madre. Non sapevamo cosa fosse peggio. Eravamo insieme: forse la separazione sarebbe stata più atroce.
«Ma durante il viaggio verso l’Egitto, avemmo una piccola consolazione che più tardi non avremmo dimenticato. Khayman, il maestro di palazzo del re, ci guardava con compassione e faceva tutto il possibile, in segreto, per alleviare le nostre pene.»
Maharet s’interruppe di nuovo e guardò Khayman, che sedeva al tavolo con le mani giunte e gli occhi bassi. Sembrava sprofondato nel ricordo di ciò che Maharet stava descrivendo. Accettava quel tributo; ma pareva che non lo consolasse. Ma non disse nulla. Girò lo sguardo sugli altri, ricambiando le occhiate ferme di Armand e di Gabrielle; tuttavia continuò a tacere.
Poi Maharet proseguì.
«Khayman ci allentava i legami quand’era possibile; la sera ci permetteva di camminare un po’, ci portava cibo e bevande. Era bello che non ci parlasse mentre faceva queste cose; non chiedeva gratitudine. Lo faceva con cuore puro: non amava vedere soffrire.
«Mi pare che impiegammo dieci giorni per raggiungere la terra di Kemet. Forse di più, forse meno. A un certo momento gli spiriti si stancarono dei loro trucchi; e noi, depresse e scoraggiate, non li invocavamo. Ci chiudevamo nel silenzio e solo ogni tanto ci guardavamo negli occhi.
«Finalmente giungemmo in un regno quale non avevamo mai visto. Dal deserto ardente venimmo portate nella ricca terra nera che fiancheggiava il Nilo, la terra nera dalla quale deriva il nome Kemet: navigammo sul fiume a bordo di una zattera, con tutto l’esercito, ed entrammo in una grande città fatta di edifìci di mattoni dai tetti di paglia, con grandi templi e palazzi costruiti dello stesso materiale rosso, e tuttavia magnifici.
«Tutto ciò accadeva molto tempo prima dell’avvento dell’architettura in pietra che avrebbe reso famosi gli egizi… i templi dei faraoni pervenuti a noi.
«Ma c’era già un grande amore per il fasto e la decorazione, una tendenza al monumentale. Mattoni crudi, canne, stuoie, tutti questi materiali semplici erano stati usati per costruire alti muri imbiancati e coperti di splendidi disegni.
«Davanti al palazzo dove venimmo condotte come prigioniere reali c’erano grandi colonne formate con erbe della giungla, seccate, legate insieme e intonacate con il fango del fiume; in un cortile chiuso era stato creato un lago, pieno di fiori di loto e circondato da alberi in fiore.
«Non avevamo mai visto un popolo ricco come l’egizio; tutti portavano gioielli, avevano i capelli intrecciati e gli occhi dipinti. Quegli occhi ci inquietavano: infatti il trucco induriva i loro sguardi, dava un’illusione di profondità dove forse la profondità non esisteva. Istintivamente rifuggivamo da quell’artificio.
«Tutto ciò che vedevamo accresceva la nostra disperazione. Odiavamo quanto ci stava intorno. E anche se non comprendevamo la loro strana lingua, intuivamo che tutti ci odiavano e ci temevano. Sembrava che i nostri capelli rossi causassero una grande confusione; e ispirava timore anche il fatto che fossimo gemelle.
«Tra loro, infatti, c’era stata l’usanza di uccidere i neonati gemelli, e quelli con i capelli rossi venivano invariabilmente sacrificati agli dèi. Si riteneva che portasse fortuna.
«Tutto questo lo comprendevamo in lampi improvvisi di intuizione; intanto, imprigionate, attendevamo di conoscere la nostra sorte.
«Khayman continuava a essere la nostra unica consolazione. Il maestro di palazzo del re provvedeva alla nostra comodità. Ci portava stoffe pulite e frutta da mangiare e birra da bere. Ci portava pettini e abiti. E per la prima volta ci parlò. Ci disse che la regina era buona e dolce, e che non dovevamo avere paura.
«Sapevamo che diceva la verità, senza il minimo dubbio. Ma c’era qualcosa che non andava, com’era avvenuto mesi prima con le parole del messaggero del re. Le nostre sofferenze erano appena incominciate.