«Inoltre, temevamo che gli spiriti ci avessero abbandonate; forse non volevano venire in quella terra. Ma non li invocavamo… se li avessimo chiamati e non avessimo ottenuto risposta sarebbe stato insopportabile.
«Una sera la regina ci mandò a chiamare. Venimmo condotte alla presenza della corte.
«Lo spettacolo era impressionante, anche se ci ispirava disprezzo. Akasha ed Enkil sedevano sui troni. La regina era allora com’è adesso… una donna dalle spalle diritte, le membra solide e un viso quasi troppo squisito per esprimere intelligenza, un essere di grande grazia con una dolce voce da soprano. In quanto al re, ora lo vedevamo come un sovrano e non come un soldato. Aveva i capelli intrecciati, e portava il gonnellino e molti gioielli. I suoi occhi erano seri come sempre; ma in un momento apparve chiaro che era Akasha a governare il regno, e così era sempre stato. Akasha aveva il linguaggio… l’abilità verbale.
«Ci disse subito che il nostro popolo era stato debitamente punito per gli abomini commessi, e che anzi era stato trattato con misericordia, poiché i cannibali sono selvaggi e a stretto rigore avrebbero dovuto morire di morte lenta. E disse che anche noi eravamo state trattate con misericordia perché eravamo grandi streghe, e che gli egizi volevano imparare da noi e volevano sapere quale conoscenza dei regni invisibili potevamo rivelare.
«Subito, come se queste parole non contassero nulla, incominciò a far domande: chi erano i nostri demoni? Perché alcuni di essi erano buoni, se erano demoni? Non erano gli dèi? Come potevamo far cadere la pioggia?
«Eravamo troppo inorridite dalla sua insensibilità per rispondere. Eravamo ferite dalla volgarità spirituale dei suoi modi, e avevamo ricominciato a piangere. Ci abbracciammo, distogliendoci da lei.
«Ma qualcosa incominciava ad apparirci chiaro dal modo in cui parlava. La velocità delle parole, l’insolenzà, l’enfasi che attribuiva a questa e a quella sillaba… tutto ci rivelava che mentiva senza neppure accorgersene.
«Guardammo nella profondità della menzogna, chiudendo gli occhi, e vedemmo la verità che sicuramente lei avrebbe negato.
«Aveva fatto massacrare la nostra gente per portarci lì! Aveva mandato il suo re e i suoi soldati a combattere quella ‘guerra santa’ semplicemente perché avevamo rifiutato l’invito precedente, e voleva averci in suo potere. Avevamo destato la sua curiosità.
«Era ciò che nostra madre aveva veduto quando aveva preso fra le mani la tavoletta con il messaggio del re e della regina. Forse gli spiriti, a modo loro, l’avevano previsto. Noi comprendevamo solo ora tanta mostruosità.
«La nostra gente era morta perché avevamo attirato l’interesse della regina come attiravamo quello degli spiriti; eravamo state noi a causare tanta sciagura.
«Perché, ci chiedevamo, i soldati non s’erano limitati a portarci via dai nostri compaesani indifesi? Perché avevano causato la rovina del nostro popolo?
«Ma quello era l’orrore! Un velo di morale aveva coperto le finalità della regina, un velo attraverso il quale lei stessa non poteva vedere, esattamente come gli altri.
«Si era convinta che la nostra gente doveva morire, sì, che lo meritava per la sua barbarie, anche se non eravamo egizi e se la nostra terra era molto lontana dalla sua patria. Oh, era molto comodo che noi venissimo trattate con misericordia e condotte lì per soddisfare finalmente la sua curiosità. E naturalmente, a quel punto avremmo dovuto essere grate e disposte a rispondere alle sue domande.
«E a una profondità ancora più grande dell’inganno, vedevamo la mente che rendeva possibili tali contraddizioni.
«La regina non aveva una vera morale, un vero sistema etico che governasse le sue azioni. Era una di quegli umani che intuiscono che forse non vi è nulla e non esiste una ragione delle cose che possa essere conosciuta. Tuttavia non ne sopportava il pensiero. Perciò creava di continuo i suoi sistemi etici, e cercava disperatamente di credervi, e tutti rispondevano alle cose che faceva solo per motivi pratici. La sua guerra contro i cannibali, per esempio, era derivata soprattutto dalla sua insofferenza a tali usanze. A Uruk, la sua gente non mangiava carne umana, perciò non voleva che accadesse né lì né da altre parti; in realtà non c’era una giustificazione plausibile. In lei, infatti, c’era sempre un angolo tenebroso colmo di disperazione. E una grande forza che la spingeva a cercare un significato dove non esisteva.
«Dovete capire: non era superficialità ciò che vedevamo in quella donna. Era la convinzione giovanile di poter far risplendere la luce se avesse tentato, di poter plasmare il mondo come desiderava; e c’era anche una mancanza d’interesse per le sofferenze altrui. Sapeva che gli altri soffrivano, ma preferiva non pensarci.
«Alla fine, incapaci di sopportare tanta doppiezza, la studiammo perché ora dovevamo contendere con lei. Non aveva ancora venticinque anni, e aveva poteri assoluti in quella terra che aveva abbagliato con le usanze importate da Uruk. Era quasi troppo graziosa per essere veramente bella, perché quella grazia escludeva il senso di maestà e di mistero profondo; e la sua voce aveva ancora un suono infantile, un suono che evocava negli altri una tenerezza istintiva, e conferiva una lieve musicalità alle parole più semplici, un suono che per noi era esasperante.
«Continuò con le domande. Come compivamo i nostri miracoli? Come leggevamo nei cuori degli uomini? Da dove proveniva la nostra magia, e perché affermavamo di parlare con esseri invisibili? Potevamo parlare nello stesso modo ai suoi dèi? Potevamo approfondire la sua conoscenza o permetterle di comprendere meglio ciò che era divino? Era disposta a perdonarci d’essere delle selvagge, se fossimo state riconoscenti, se ci fossimo inginocchiate davanti ai suoi altari e avessimo deposto davanti a lei e ai suoi dèi ciò che sapevamo.
«Manifestava un’insistenza che avrebbe fatto ridere un saggio. Tuttavia Mekare si adirò grandemente. Lei, che aveva sempre preso l’iniziativa in tutto, parlò con franchezza.
«‘Finiscila con queste domande. Sono stupide’, dichiarò. ‘Non ci sono dèi in questo regno, perché gli dèi non esistono. I soli abitatori invisibili del mondo sono gli spiriti, e giocano con voi per mezzo dei sacerdoti e della religione come giocano con tutti gli altri. Ra, Osiride… sono nomi inventati con i quali lusingate e corteggiate gli spiriti; e quando serve ai loro scopi, vi inviano un piccolo segno affinchè vi precipitiate ad adularli ancora di più.’
«Il re e la regina la fissarono inorriditi. Mekare, tuttavia, continuò: ‘Gli spiriti sono reali, ma sono puerili e capricciosi. E sono pericolosi, anche. Provano per noi meraviglia e invidia perché siamo spirituali e nel contempo carnali; questo li attrae e li rende ansiosi di fare il nostro volere. Le streghe come noi hanno sempre saputo come usarli; ma per riuscirci occorrono una grande abilità e un grande potere, che noi possediamo e voi no. Siete sciocchi, e ciò che avete fatto per prenderci prigioniere è malvagio, è disonesto. Voi vivete nella menzogna, ma noi non vi mentiremo!’
«Quindi, piangente e sdegnata, Mekare accusò la regina davanti all’intera corte di aver massacrato la nostra gente, un popolo pacifico, per il semplice scopo di portarci lì. La nostra gente, disse, da mille anni non andava a caccia di carne umana; era stato un banchetto funebre a essere profanato per la nostra cattura, e questo sacrilegio era stato commesso perché la regina di Kemet avesse la possibilità di parlare con due streghe, di far loro domande, e le avesse in pugno per cercare di sfruttare il loro potere.
«Questo creò un grande scompiglio a corte. Nessuno aveva mai sentito una simile impudenza blasfema. Ma i vecchi nobili egizi, che ancora disapprovavano la messa al bando del cannibalismo sacro, erano inorriditi nel sentir parlare del banchetto funebre profanato. E altri, che temevano la punizione celeste per non aver divorato i resti dei genitori, erano ammutoliti dalla paura.