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In un primo momento la domanda le sembrò così pazzesca e insensata che lei non seppe rispondere, lì, perduta sulla montagna del drago. Poi l’impulso che aveva spinto Hugh si affermò anche in lei, e non vide più nulla di strano in ciò che le chiedeva. — Lavoro. Mott Zerming. Faccio le commissioni.

— Come?

— Le commissioni. Hanno una quantità di sussidiarie e di affiliate, in città, e una quantità di corrispondenza e di promemoria e di disegni e tutto il resto (si occupano anche d’ingegneria) e a loro conviene servirsi di gente che li porti ai vari uffici, piuttosto che usare la posta. È un’azienda molto grande. Ma è ancora su scala locale, e Mr. Zerming la dirige ancora personalmente. Preferisce servirsi di persone con macchina propria. Però ho tutta la benzina gratis.

— Pazzesco — disse lui, in tono d’approvazione. — Così te ne vai sempre in giro in macchina?

— In certi casi è più facile andare a piedi, agli uffici del centro. Oppure prendere l’autobus. Certi giorni guido dalla mattina alla sera. È abbastanza strano. A me piace, perché sono indipendente e lo faccio a modo mio. Detesto fare le cose quando è qualcun altro a dirmi come devo fare.

— È il guaio di tanti lavori.

— Il guaio di questo è che per la verità è un lavoro da ragazzini. Un po’ irreale… sai bene. In realtà non fai mai niente. Corri e corri e non approdi mai a nulla.

— Cosa ti piacerebbe fare?

— Non so. Questo non mi dispiace, sai, va benissimo. È un lavoro. Ma credo che quello che una persona fa veramente sia diverso. Dovrebbe essere diverso. Come una fattoria. O l’insegnamento. O occuparsi dei bambini. Ma non fa per me. Bisogna avere un po’ di terreno e un trattore. Oppure prendere un diploma d’insegnante o di puericultrice o qualcosa del genere.

— Potresti andare a una scuola serale — disse lui, pensosamente. — E lavorare di giorno. Almeno per cominciare. Se…

— Si direbbe che tu ci hai pensato molto. Oppure dovresti andare a un’università speciale?

— Per che cosa?

— Per diventare bibliotecario, hai detto.

Hugh la guardò di nuovo, uno sguardo lento. — Giusto — disse; e Irena comprese, con certezza indiscutibile che aveva riconosciuto qualcosa che era stato represso e disprezzato, aveva fatto qualcosa di assolutamente, definitivamente giusto. Non sapeva cosa fosse, ma l’effetto la rallegrò. — Pazzesco — disse. Tutti quei libri. Cosa te ne faresti, comunque?

— Non so — disse lui. — Leggerli?

Il sorriso di Hugh era bonario. Lei rise. I loro occhi s’incontrarono, deviarono. Rimasero per un po’ in silenzio.

— Se almeno fossi sicura che stiamo andando veramente verso est, sarebbe così bello!… Ti senti bene, adesso?

— Benone.

Lui parlava sempre quietamente, ma lei sentiva la risonanza della voce smorzata: forse era una bella voce, fatta per cantare.

— Mi fa un male d’inferno qui — commentò lui, con un certo stupore, tastandosi il fianco sinistro, con delicatezza.

— Fammi vedere. . — Non è niente.

— Beh, fammi vedere. Mi è sembrato che ti muovessi un po’ rigido, da quella parte.

Lui cercò di alzare la camicia, ma non riuscì a sollevare il braccio sinistro. Sbottonò la camicia. Era imbarazzato, e lei cercò di comportarsi con il distacco di un medico. All’altezza del gomito, al limite della cassa toracica, c’era una macchia neroverdastra, grande come il coperchio d’un barattolo di caffè. — Mio Dio, — disse lei.

— Che cos’è? — chiese lui, apprensivo; non poteva vederla bene.

— Un livido, credo. — Irena pensò all’impugnatura della spada che sporgeva dal ventre dell’essere bianco. Si rattrappì istintivamente, a quel pensiero. — Da quando il… da quando ti è caduto addosso. — Tutto intorno alla chiazza la pelle era giallastra, e c’erano altri lividi e striature più cupe che salivano verso lo sterno. — Non mi sorprende che ti faccia male — disse lei. Sentì il calore dell’ematoma sui polpastrelli, prima di toccarlo lievemente.

Lui le prese la mano. Irena pensò di avergli fatto male e alzò la testa per guardarlo. Non si mossero; lei gli stava inginocchiata accanto, lui sedeva con un ginocchio rialzato.

— Mi hai detto di non toccarti mai — disse Hugh, con voce rauca.

— Questo è stato prima.

La bocca di lui s’era ammorbidita e allentata, il volto era intento, profondamente serio, come lei l’aveva visto una volta soltanto. Aveva visto sulle facce di altri uomini la stessa maschera, che li rendeva tutti eguali, e aveva nascosto il suo volto. Adesso, senza paura, un po’ sgomenta ma incuriosita, lo scrutò, e gli toccò la bocca e l’incavo della tempia, accanto all’occhio, delicatamente come aveva toccato il livido nero, ansiosa di conoscere quella sofferenza e quel desiderio. Hugh la trasse a sé, ma goffamente e timidamente, fino a quando lei alzò entrambe le braccia, e si sentì diventare molle e guizzante come l’acqua. Poi lui la tenne e montò su di lei, sopraffacendola; eppure la forza di lei conteneva la forza di lui.

Quando entrò in lei, giunsero insieme al culmine, e poi giacquero insieme, fusi e mescolati, petto contro petto, il respiro frammisto, fino quando lui si erse di nuovo dentro di lei, e lei si chiuse su di lui, sospinti entrambi dal lungo palpito della gioia.

Lui giaceva con gli occhi chiusi e la testa girata, nudo per tre quarti, con i jeans abbassati. Lei toccò la lunga linea splendida dal fianco alla gola, guardò i peli serici e biondi, stranamente innocenti, nel cavo dell’ascella. — Sei freddo — disse, e riuscì a tirare il mantello rosso su tutti e due. — Sei bella — disse lui, mentre le sue mani cercavano di descrivere quella bellezza in carezze, ma senza fretta, con tenerezza sonnolenta. Giaceva con la faccia contro la spalla di lei. Semiaddormentata, lei vide le fronde immobili degli abeti contro il cielo quieto. Il conforto che si davano l’un l’altro era grande, ma era l’unico che potevano avere. Il terreno era duro. Lo sentiva rabbrividire nel sonno. Si scostò da lui. Lui protestò, mormorando il suo nome, ripiombando per un minuto nel sonno.

Irena si rivestì, rabbrividendo un poco a sua volta, e quando lui si svegliò, gli fece mettere la giubba di pelle, che finalmente era abbastanza asciutta, e sopra il mantello. — È lo shock che ti fa sentir freddo — disse lei.

— Lo shock di che cosa? — chiese Hugh, con un sorriso placido.

— Taci. Ti fa sentir freddo… lo shock da lesioni.

— Credo che abbiamo scoperto come scaldarci.

— Sì, d’accordo, ma non possiamo arrivare alla porta standocene qui a fare l’amore, Hugh.

— Non so se potremo arrivarci camminando — disse lui. — Almeno potremo goderci le soste — aggiunse, e poi la guardò per assicurarsi di non averla offesa, di non aver turbato il suo pudore. Il pudore di lui, la sua vulnerabilità, le sembravano del tutto ammirevoli. Lei era molto più cruda, pensò, e se la giudicava doveva disapprovarla; ma lui non la giudicava. Non veniva a lei con giudizi, o con una collocazione, o un nome, o un uso per lei. Veniva a lei senza altro che la forza e il bisogno.

La stava guardando. Le disse: — Irena, sai, è stata la cosa più bella che mi sia mai capitata. Lei annuì, incapace di rispondere.

— Credo che dovremmo proseguire — disse lui. Si tastò il fianco sinistro con un’espressione pensierosa e disgustata. — Vorrei che passasse.

— Ci vorrà un po’. È un livido tremendo.

Lui la stava guardando di nuovo, incerto; poi, risolutamente, si avvicinò, le toccò i capelli e la guancia e la baciò… in modo non esperto e non molto appassionato; ma era il loro primo bacio. Più del bacio, a lei piaceva il tocco della grossa mano. Voleva dirgli che era bello e che le piaceva, ma dire certe cose non le riusciva mai bene.