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9.

Lei procedeva per prima. Lui la seguiva come meglio poteva. Lei si voltava spesso indietro, e qualche volta doveva aspettarlo. Lui cercava di non farsi distanziare, ma la via non era agevole, lungo la riva del ruscello. Radici, cespugli, felci si affollavano, e il terreno sotto i loro piedi era irregolare, a volte sdrucciolevole. Da quando lui si era sforzato troppo, scendendo il ripido burrone, il dolore al fianco non lo lasciava più. Gli abbreviava il respiro e il passo. Dopo un po’, non pensò più a cercare di non farsi distanziare, ma solo a cercare di continuare a procedere. Nel punto in cui un ruscelletto più piccolo si gettava in quello che stavano costeggiando, questo si allargava in una palude dove non c’era terreno solido; e decisero di attraversare l’acqua. Fu molto difficile. Lo stordimento che andava e veniva gli impediva di tenersi bene in equilibrio sulle pietre viscide, contro la forza della corrente. Temeva che, se fosse caduto, si sarebbe fatto ancora più male al fianco. Riuscì ad attraversare, ma un po’ più tardi dovettero attraversare di nuovo, e lui non sapeva perché: adesso si stava concentrando completamente sui propri passi. Lei cercò di dargli una mano, al guado, ma non servì a molto. Lei era troppo minuta, se fosse scivolato sarebbe scivolato e basta, maledetto elefante. L’acqua era così fredda che bruciava. Ormai avevano attraversato, e un percorso più agevole si apriva lungo una riva sabbiosa, sotto gli alberi grigi. Se almeno il fianco non avesse bruciato tanto, se la trafittura di spada non fosse diventata sempre più profonda. Lei era come un’ombra, lo precedeva a passo così leggero: l’unica ombra in quel mondo senza ombre, senza luna e senza sole. Aspettami, Irena! avrebbe voluto dire, ma non era necessario: lei attendeva. Si voltò verso di lui, tornò verso di lui. La mano calda e forte toccò la sua mano. — Vuoi riposare un po’, Hugh? — Lui scosse la testa. — Voglio andare avanti — disse. La spada penetrò un poco più a fondo, di nuovo. Il suo nome, il nome di suo padre, che lui aveva odiato, nella voce di lei era un battesimo: un respiro, l’espirazione: tu. Tu, il mio esaudimento. Tu, incontrata aldilà di ogni attesa: tu, la mia vita. Non morte ma vita. Davanti all’antro del drago ci siamo sposati.

— Per un po’ — disse lui. Era in ginocchio. Lei gli venne accanto, sollecita e premurosa. Le disse di non preoccuparsi, voleva sedersi e riposare per un po’; o almeno, avrebbe voluto dirglielo.

Lei lo fece sdraiare e lo drappeggiò nel mantello rosso; lo abbracciò e cercò di scaldarlo con il suo calore. L’ombra era lui, lei era calore, luce del sole.

— Canta la canzone — le disse.

In un primo momento lei non lo udì: Hugh non poteva parlare forte, a causa della spada nel fianco. Quando lo ripeté, lei comprese. Si puntellò sul gomito e distolse leggermente il viso e cantò con quella sua voce esile e dolce, la voce dell’allodola, senza paura:

Quando il fiore è in boccio e la foglia sull’albero l’allodola col suo canto mi guiderà al mio paese.

— È quello — disse lui.

— Che cosa?

— La patria è quel paese — disse lui. — Non questo.

Il volto di lei era vicino al suo; gli accarezzò i capelli. Il suo calore era passato a lui. Chiuse gli occhi. Quando si svegliò, il fianco non gli faceva più male, fino a quando si mosse. Alzarsi era la cosa più difficile. Non poteva inginocchiarsi per bere l’acqua senza doversi rialzare, vergognandosi dei suoni che gli uscivano dal petto mentre lo faceva, una serie di ansiti scricchiolanti, ma non poteva alzarsi senza emetterli. — Vieni — disse Irena. — Di qua. — Parlava in tono così rassicurante che lui le chiese: — Hai trovato la strada? — Lei non lo udì. Hugh poteva camminare, ma incespicava spesso. Andava meglio se lei gli camminava accanto. Lo guidava così bene che lui poteva camminare con gli occhi chiusi, a volte, ma quando si discostava barcollando dal sentiero la trascinava con sé, e perciò si sforzava di tenere gli occhi aperti. Il percorso era agevole. Gli alberi si aprivano davanti a loro, li lasciavano passare. Ma dovevano attraversare ancora il ruscello. Non era possibile.

— Lo hai già fatto — disse lei.

Davvero? Allora era per quello che aveva tanto freddo: era bagnato. Quindi non c’era nulla di male a bagnarsi ancora. L’acqua bruciava come il fuoco, l’acqua scura e veloce che non avrebbe più bevuto. C’era la sporgenza di roccia sopra il ruscello, dove lui e lei s’erano inginocchiati. E i cespugli e l’erba senza fiori della radura, il luogo dell’inizio, ma adesso era la fine; e il pino e gli alti allori, ma non c’era una via, in mezzo, fino a quando non gliela aprì la mano di lei. Ma Hugh non riuscì ancora a passare, fino a quando lei gli prese la mano e, al suo fianco, entrò nel mondo nuovo.

Lei si aspettava la luce del sole. Aveva sempre pensato che sarebbero usciti nell’afosa, tremenda luce solare di quella calda estate. Varcarono la soglia ed entrarono nella notte e nella pioggia.

La pioggia cadeva fitta, a grosse gocce. Il suono, mentre colpiva le foglie del bosco e il suolo, era bellissimo, e anche il profumo. Il suo viso era bagnato di pioggia, come se avesse pianto. Ma non poteva far riposare Hugh, come aveva sperato di fare appena fossero passati. Non era possibile, su quel terreno fradicio, e loro avevano già i jeans e le scarpe fradici, dopo aver attraversato i tre fiumi. Dovevano andare avanti. Non era giusto: lui era accecato dal dolore e dalla febbre. Ma lei gli teneva il braccio, e lui continuava a camminare. Lentamente, procedettero attraverso il bosco buio, e poi attraverso i campi abbandonati. L’aria e il terreno erano striati dai fari lontani delle macchine sulla superstrada, che sventagliavano tra la pioggia. A un certo punto Hugh incespicò e appena riprese l’equilibrio, tirando pesantemente lei, gridò; ma poi disse — No, non è niente — e proseguirono, avvicinandosi alla strada di ghiaia, e le luci accanto alla fabbrica di vernici erano il loro faro. Sul breve pendio per raggiungere la strada, lui cadde sulle ginocchia, e poi, senza una parola, senza un cenno, scivolò in avanti, bocconi sul suolo.

Irena era caduta con lui; gli si accoccolò accanto, sull’erba bagnata. Dopo un po’, s’inerpicò sul bordo della strada, si fermò un momento a guardare indietro, il buio dove lui giaceva. Non riusciva a vederlo. Piagnucolando d’avvilimento come lui aveva piagnucolato di dolore, si avviò lungo la strada, verso la fattoria.

Fari dietro di lei, provenienti dalla fabbrica. Atterrita come un coniglio, restò immobile sul ciglio della strada, sentì il motore rallentare, i pneumatici stridere.

— Ehi. È successo qualcosa?

Sapeva che poteva ancora succedere, che poteva sempre essere ciò che temeva; ma si voltò e si accostò alla macchina. Tremava. Scorse una faccia dalla barba rossa nel riflesso dei fari. — Il mio amico è ferito — disse.

— Dove? Aspetti.

La macchina era piccola, e Hugh non era di grande aiuto, ma l’uomo dalla barba rossa, deciso, lo caricò alla meglio sul sedile davanti, poi fece sistemare Irena sul sedile posteriore e sfrecciò via a ottanta miglia all’ora, ben contento di farlo, verso il Fairways Hospital. Balzò dalla macchina appena pigiò il freno davanti all’entrata del pronto soccorso, soddisfatto anche di quello. Quando Hugh venne ricoverato, la parte più interessante finì, ma l’uomo dalla barba rossa attese insieme a Irena in sala d’aspetto, le portò un caffè e una tavoletta di cioccolata dai distributori nell’atrio, fece tutto ciò che poteva fare un essere umano; non era una cosa rara, nell’esperienza di Irena, non ancora o mai una cosa comune. Sono soltanto i reali che si chiamano tra loro fratello, sorella.