Credo che Terminus Est sia la migliore lama mai forgiata, ma io sapevo che non avrebbe potuto fare nulla contro il potere che aveva annientato così tanti soldati, per cui la gettai da un lato, nella vaga speranza che potesse un domani essere ritrovata e restituita al Maestro Palaemon; quindi trassi l’Artiglio dalla sua sacca.
Quella era la mia ultima, debole speranza, e vidi subito che anch’esso non mi avrebbe aiutato. Quale che fosse il modo in cui la creatura sondava il mondo che la circondava (e dai suoi movimenti era chiaramente comprensibile che essa era totalmente cieca sulla nostra Urth), era capace di percepire la gemma, e non la temeva. La sua lenta avanzata si trasformò in un rapido fluire animato da uno scopo preciso, ma quando raggiunse la soglia… ci fu uno sbuffo di fumo, un crollo, ed essa scomparve. Una luce proveniente dal disotto brillava attraverso il buco che la cosa aveva praticato involontariamente nel pavimento con il suo calore, là dove finiva lo strato di roccia e cominciava la sottile pavimentazione in legno. All’inizio, dal buco trapelò la luce incolore della creatura, quindi ci fu una rapida successione di tinte pastello… azzurro, lilla e rosa. Poi rimase solo la debole e rossiccia luce delle fiamme.
X
PIOMBO
Ci fu un momento in cui pensai che sarei caduto nel buco apertosi nel centro della stanza prima di riuscire a recuperare Terminus Est ed a portare in salvo la padrona del Nido dell’Anitra, ed un altro istante in cui pensai che sarebbe crollato tutto… la tremante struttura della stanza e noi con essa.
Eppure, alla fine ci salvammo. Quando raggiungemmo la strada, essa era sgombra sia di dimarchi che di cittadini, perché senza dubbio i soldati erano stati attirati dal fuoco sottostante e gli abitanti erano stati indotti dalla paura a rinchiudersi in casa. Sostenni la donna con un braccio, e, sebbene fosse ancora troppo inorridita per poter rispondere coerentemente alle mie domande, lasciai che fosse lei a scegliere la strada da seguire, e, come avevo supposto, mi condusse senza sbagliare fino alla locanda.
Dorcas stava dormendo, ed io non la svegliai, ma mi sedetti al buio su un piccolo sgabello posto vicino al letto, accanto al quale si trovava ora anche un tavolinetto grande quanto bastava per reggere la bottiglia ed il bicchiere che mi ero portato su dalla sala comune. Il vino mi sembrava forte al gusto, ma il suo effetto era minore di quello dell’acqua una volta che lo avevo inghiottito, e, quando Dorcas si svegliò, avevo già bevuto oltre mezza bottiglia senza risentirne più che se avessi bevuto altrettanto sherbet.
Dorcas fece per sollevarsi, ma poi lasciò cadere il capo sul cuscino.
— Severian. Avrei dovuto sapere che eri tu.
— Mi dispiace di averti spaventata — dissi. — Sono venuto a vedere come stai.
— Molto gentile da parte tua, anche se mi sembra sempre che tu sia chino su di me, quando mi sveglio. — Per un momento, i suoi occhi si richiusero. — Cammini molto silenziosamente, con quei tuoi stivali dalla suola spessa, lo sapevi? È uno dei motivi per cui la gente ti teme.
— Una volta, mi hai detto che ti facevo pensare ad un vampiro perché avevo mangiato una pomogranata ed avevo le labbra macchiate di rosso, e ne abbiamo riso. Te lo rammenti? — (Era successo in un campo, alle spalle del Muro di Nessus, quando avevamo dormito vicino al teatro del Dr. Talos ed al risveglio avevamo fatto festa con i frutti che il nostro pubblico in fuga aveva lasciato cadere la sera precedente).
— Sì — rispose Dorcas. — Tu vorresti che io ridessi di nuovo, vero? Ma temo che non potrò ridere mai più.
— Ti andrebbe un po’ di vino? È gratis, e non è cattivo come mi sarei aspettato.
— Perché mi rallegri? No. Credo che si debba bere quando si è già allegri, altrimenti non si versa nella coppa che altro dolore.
— Almeno, bevi un sorso. L’ostessa ha detto che ti sei sentita male e che non hai mangiato tutto il giorno.
Allora vidi la testa dorata di Dorcas muoversi sul cuscino mentre si girava verso di me, e, siccome mi sembrava perfettamente sveglia, mi azzardai ad accendere una candela.
— Indossi il tuo abito — osservò Dorcas. — Devi averla spaventata a morte.
— No, non ha avuto paura di me, ed ora è occupata a riempirsi il bicchiere con tutto quello che riesce a trovare.
— È stata buona con me… è molto gentile. Non essere duro con lei, se le va di bere ad un’ora tanto tarda.
— Non intendevo essere duro nei suoi confronti. Ma non ti andrebbe qualcosa? Ci dev’essere un po’ di cibo nella cucina, e ti porterò su tutto quello che ti va.
Le parole da me scelte la fecero sorridere debolmente.
— Non ho fatto altro che ingoiare cibo tutto il giorno. O forse non te lo ha detto? Ho vomitato. Credevo che se ne sentisse ancora l’odore, anche se quella povera donna ha fatto del suo meglio per ripulire. — Dorcas fece una pausa ed annusò l’aria. — Cos’è quest’odore? Tessuto bruciato? Dev’essere la candela, ma non credo che tu possa affilare lo stoppino con quella tua grande spada.
— Credo che sia il mio mantello — spiegai. — Sono stato troppo vicino al fuoco.
— Ti chiederei di aprire la finestra, ma vedo che è già aperta, e temo che ti dia fastidio, perché fa tremolare il lucignolo. Quelle ombre incerte non ti fanno girare la testa?
— No. Va tutto bene, fino a che non fisso la fiamma.
— Dalla tua espressione, mi sembra che tu provi per il fuoco quello che io provo sempre vicino all’acqua.
— Questo pomeriggio ti ho trovata seduta proprio in riva al fiume.
— Lo so — replicò Dorcas, e cadde nel silenzio, un silenzio che si protrasse tanto a lungo da farmi temere che non avrebbe più parlato e che il mutismo patologico (ora ero certo che si fosse trattato di questo) che si era impadronito di lei l’avesse assalita ancora.
— Sono rimasto sorpreso di trovarti là — azzardai infine, — e rammento che ho guardato più volte prima di essere sicuro che fossi tu, anche se ti stavo cercando.
— Ho vomitato, Severian. Te l’ho già detto, vero?
— Sì, me lo hai già detto.
— Lo sai che cosa ho vomitato?
Stava fissando il basso soffitto in un modo che mi dava l’impressione che vedesse su di esso un altro Severian, quel Severian dolce ed addirittura nobile d’animo che esisteva soltanto nella sua mente. Suppongo che tutti noi, quando siamo convinti di parlare intimamente a qualcun altro, ci rivolgiamo in effetti ad un’immagine da noi forgiata della persona con cui crediamo di parlare, ma questa volta mi sembrava che ci fosse qualcosa di più: avevo la sensazione che Dorcas avrebbe continuato a parlare anche se io fossi uscito dalla stanza.
— No — risposi. — Acqua, forse?
— Proiettili di fionda.
— Dev’essere stata una cosa molto spiacevole — commentai, pensando che stesse esprimendosi per metafore.
La sua testa si mosse ancora sul cuscino, ed ora potei vedere i due grandi occhi azzurri dilatati; nel vuoto di quelle pupille sembravano danzare due piccoli spettri bianchi.
— Proiettili di fionda, mio caro Severian. Piccoli, pesanti proiettili di metallo, ciascuno con il diametro di una nocciola, un po’ meno lunghi del mio pollice, e con su stampata la parola colpire. Sono usciti dalla mia gola e sono caduti tintinnando nel secchio, ed io ho infilato la mano nella sporcizia che era uscita insieme ad essi e li ho raccolti per vederli. La padrona della locanda è venuta ed ha portato via il secchio, ma io li avevo già puliti e conservati. Sono due, ed ora si trovano nel cassetto del tavolo che la donna ha portato su per appoggiarvi la mia cena. Li vuoi vedere? Apri il cassetto.