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Così, mentre rimanevo, un turno di guardia dopo l’altro, nella corte dell’arconte, Dorcas prese l’abitudine di gironzolare per la città, e noi, che eravamo rimasti sempre insieme durante l’ultima parte della primavera, giungemmo, ora che era estate, al punto di non vederci quasi più, condividendo appena il pasto serale e poi abbandonandoci esausti su un letto dove raramente facevamo qualcosa di più che addormentarci immediatamente, uno nelle braccia dell’altro.

Finalmente, arrivò la luna piena. Con quanta gioia la contemplai dal tetto della bertesca, verde come uno smeraldo nel suo manto di foreste e rotonda come il bordo di una coppa! Non ero ancora libero, dato che dovevo occuparmi di tutti i dettagli relativi alle pene ed all’amministrazione, che erano rimasti in sospeso durante la mia permanenza alla corte dell’arconte, ma almeno ero libero di dedicare a queste cose la mia piena attenzione, il che mi sembrava una cosa bella quasi quanto la libertà vera e propria. Il giorno successivo, invitai Dorcas a venire con me quando mi recai a fare un’ispezione nella parte sotterranea del Vincula.

Quello fu un errore: Dorcas si sentì male, in quell’aria fetida, circondata dai miseri prigionieri, e quella notte, come ho già riferito, mi disse di essere andata ai bagni pubblici (una cosa rara per lei, il cui terrore dell’acqua era tale da indurla a lavarsi un pezzetto alla volta, con una spugna che immergeva in un recipiente meno profondo di un piatto per la zuppa) per liberare la pelle ed i capelli dall’odore della galleria, e mi disse anche di aver sentito le custodi del bagno indicarla alle altre clienti.

II

SULLA CATERATTA

La mattina successiva, prima di lasciare la bertesca, Dorcas si tagliò i capelli, tanto da sembrare quasi un ragazzo, ed infilò una peonia bianca nel cerchietto che li tratteneva. Io faticai sui documenti fino al pomeriggio, quindi presi in prestito uno jelab da civile dal sergente dei miei clavigeri ed uscii, nella speranza d’incontrare Dorcas.

Il libro marrone che porto con me dice che non vi è nulla di più strano che esplorare una città del tutto differente dalle altre che si conoscono, perché è come esplorare un secondo ed insospettato noi stessi; ma io ho scoperto una cosa ancora più strana: esplorare una città di questo tipo solo dopo averci vissuto per qualche tempo senza apprendere nulla in merito ad essa.

Non sapevo dove si trovassero i bagni di cui aveva parlato Dorcas, per quanto fossi certo che esistevano, a causa dei discorsi che avevo udito nella corte. Non sapevo neppure dove si trovasse il bazar in cui Dorcas comprava abiti e cosmetici, e neppure se ce n’era più d’uno: in poche parole, non conoscevo nulla, tranne il poco che potevo vedere dalle mie finestre ed il breve tragitto dal Vincula al palazzo dell’arconte. Forse ero un po’ troppo sicuro di riuscire ad orientarmi in una città tanto più piccola di Nessus, ma anche così presi ugualmente la precauzione, di tanto in tanto, mentre camminavo lungo le strade ricurve che discendevano la collina fra case scavate nella roccia o che sporgevano da essa, di controllare se mi era possibile ancora vedere la familiare sagoma della bertesca, con la porta sprangata ed il gonfalone nero.

A Nessus, i ricchi vivono verso nord, dove le acque del Gyoll sono più pure, ed i poveri a sud, dove il fiume è sporco. Qui a Thrax, quel costume non era più osservato, sia perché l’Acis scorreva tanto rapido che gli escrementi di coloro che abitavano a nord (e che erano, naturalmente, la millesima parte di coloro che vivevano lungo le sponde settentrionali del Gyoll) non ne contaminavano quasi le acque, sia perché l’acqua pulita prelevata dalla cateratta veniva convogliata alle fontane pubbliche ed alle case dei ricchi per mezzo di acquedotti: in tal modo, non occorreva far ricorso al fiume se non quando erano necessari grossi quantitativi d’acqua, per scopi industriali o di lavanderia.

Così, a Thrax, la distinzione era data dall’elevazione: i più ricchi vivevano sui pendii più bassi e vicini al fiume, a breve distanza dai negozi e dagli uffici pubblici, da dove potevano con una breve passeggiata raggiungere i moli e spostarsi per tutta la lunghezza della città su caìcchi dai remi azionati da schiavi. Coloro che erano leggermente meno ricchi avevano le loro case un po’ più in alto, la classe media dimorava di solito ancora più su, e così via, fino a che i più poveri abitavano ai piedi delle fortificazioni sulla vetta delle colline, spesso in jacals di fango e canne, che potevano essere raggiunti solo per mezzo di una scala a pioli.

Avrei avuto modo in seguito di visitare qualcuno di quei luoghi miserevoli, ma, per il momento, rimasi nel quartiere commerciale, vicino all’acqua. Là, le strette strade erano talmente affollate di gente, che all’inizio pensai fosse in corso qualche festa, o che forse la guerra… che mi era parsa così remota mentre rimanevo a Nessus, ma che era divenuta sempre più incombente man mano che io e Dorcas viaggiavamo verso nord… era adesso tanto vicina da riempire la città di coloro che fuggivano dinnanzi ad essa.

Nessus è tanto estesa che ha, così ho sentito dire, cinque edifici per ogni abitante; a Thrax, quella proporzione era certo invertita, e quel giorno avevo talvolta l’impressione che dovessero esservi cinquanta abitanti per edificio. Inoltre, Nessus è una città cosmopolita, dove s’incontrano molti stranieri, e di tanto in tanto perfino qualche cacogeno venuto con la sua nave da altri mondi; ma, nonostante questo, noi eravamo consapevoli del fatto che quelli erano stranieri, lontani dalle loro case. Qui le strade traboccavano di gente, la cui diversa umanità rifletteva però semplicemente la diversa natura dei vari insediamenti montani, per cui, quando vedevo, per esempio, un uomo dal cappello fatto con la pelle di un uccello le cui ali erano usate come paraorecchi, o un uomo con un irsuta giacca di pelle di kaberu, o un uomo con la faccia tatuata, sapevo che avrei potuto incontrare centinaia di altri membri della stessa tribù appena svoltato l’angolo.

Quegli uomini erano eclettici, discendenti da coloni del sud che avevano mescolato il loro sangue con quello dei tozzi e scuri autoctoni, adottando alcuni dei loro costumi e mescolandoli con altri acquisiti dagli anfitrioni che vivevano più a nord e con quelli, in alcuni casi, di popoli anche meno noti, commercianti e razze circoscritte.

Molti di quegli eclettici preferiscono come armi i coltelli ricurvi, o, come dice talvolta qualcuno, piegati… armi che hanno due sezioni relativamente diritte con una piega a gomito verso la punta. Si dice che quella forma renda più facile trapassare il cuore colpendo da sotto il diaframma; le lame sono irrigidite da un’ossatura centrale, sono affilate su entrambi i lati e molto taglienti. Non hanno elsa, e le impugnature sono, di solito, d’osso. (Ho descritto dettagliatamente questi coltelli perché sono caratteristici di quella regione più di qualsiasi altra cosa, e perché è da essi che Thrax trae un altro dei suoi nomi: la Città dei Coltelli Ricurvi. Esiste inoltre una somiglianza fra la pianta della città e la lama di quei coltelli: infatti la curva della gola corrisponde a quella della lama, il fiume Acis è l’ossatura centrale, il Castello di Acies la punta ed il Capulus la linea lungo la quale la lama svanisce nell’impugnatura.)

Uno dei custodi della Torre dell’Orso mi disse una volta che non esiste animale tanto pericoloso o selvaggio ed indomabile quanto l’ibrido risultante dall’accoppiamento di un cane da combattimento con una lupa. Noi siamo abituati a pensare che le bestie che abitano le foreste e le montagne siano selvagge, ma la verità è che esistono certi animali domestici molto più selvaggi e malvagi (come noi noteremmo se non fossimo così abituati alla cosa), nonostante comprendano il linguaggio dell’uomo e riescano talvolta a pronunciare qualche parola. Così, esiste una vena selvaggia molto più profonda negli uomini e nelle donne i cui antenati hanno vissuto nelle città fin dagli albori dell’umanità.