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Vodalus, nelle cui vene scorreva il sangue puro di un migliaio di esultanti… exarchi, etnarchi e starosti… era capace di atti di violenza inimmaginabili verso gli autoctoni che si aggiravano per le vie di Thrax, nudi sotto i mantelli di huanaco.

Come i bastardi derivanti da un cane ed una lupa (che io non ho mai visto perché erano troppo feroci per poter essere utili), questi eclettici derivavano tutto ciò che era più crudele ed incontrollabile, dalla loro ascendenza mista: come amici o seguaci erano cupi, sleali e litigiosi, come nemici erano fieri, traditori e vendicativi. Così, almeno, avevo sentito dire dai miei subordinati all’interno del Vincula, dato che gli eclettici componevano circa la metà dei detenuti.

Non ho mai incontrato un uomo, di cui il linguaggio, l’abbigliamento e le usanze mi siano sconosciuti, senza speculare sulla natura delle donne della sua razza. Esiste sempre un collegamento, dato che i due sono prodotti diversi di una stessa cultura, così come le foglie di un albero, che si possono vedere, ed i frutti di quell’albero, che non si vedono perché nascosti dalle foglie, sono prodotti dello stesso organismo. Ma l’osservatore che volesse azzardarsi a predire l’aspetto ed il profumo del frutto in base all’aspetto dei pochi rami fronzuti visibili a distanza, deve sapere molte cose sulle foglie e sui frutti, se non si vuole coprire di ridicolo.

Uomini guerrieri possono essere generati da donne languide, oppure possono avere sorelle altrettanto forti quanto loro ed anche più risolute. E così io, camminando fra quella folla, che sembrava composta per la maggior parte di eclettici e di cittadini (che non mi sembravano molto dissimili dai cittadini di Nessus, salvo che per il fatto che il loro vestiario e le loro maniere erano alquanto più rozze), mi sorpresi a speculare sul conto di donne dagli occhi e dalla pelle scura, donne dai lucidi capelli neri fitti come le criniere arcuate dei destrieri dei loro fratelli, donne di cui immaginavo i volti forti eppure delicati, donne capaci di una feroce resistenza e di una rapida resa; donne che potevano essere vinte ma non comprate… ammesso che simili donne esistessero al mondo.

Dall’immagine dei loro corpi, le mie fantasticherie si spostarono sul luogo in cui esse vivevano, le solitarie capanne accoccolate vicino ad una sorgente montana, gli yurts di pelli che sorgevano isolati sugli alti pascoli. Presto, il pensiero delle montagne m’intossicò quanto mi aveva una volta intossicato il pensiero del mare, prima che il Maestro Palaemon mi fornisse l’esatta collocazione di Thrax. Quanto sono gloriosi, quegli inamovibili idoli di Urth, intagliati con oggetti e strumenti inimmaginabili in un tempo inconcepibilmente antico, e che levavano ancora sull’orlo del mondo le cupe teste con mitre, tiare e diademi brillanti di neve, teste i cui occhi erano grandi quanto città, figure le cui spalle erano vestite di foreste!

Così, camuffato nell’opaco jelab di un qualsiasi cittadino, mi feci strada a forza di gomiti nelle strade piene di gente e che puzzavano di escrementi e di cibo, mentre la mia immaginazione contemplava immagini di pietre sospese e di ruscelli cristallini.

Credo che Thecla fosse stata condotta almeno ai piedi di quelle vette, senza dubbio per sfuggire al calore di qualche estate particolarmente torrida, poiché molte delle immagini che mi apparivano nella mente (a quanto sembrava in modo spontaneo), erano chiaramente infantili. Vidi piante che crescevano sulle rocce; contemplai i loro fiori virginali con un’immediatezza visiva che nessun adulto può ottenere senza inginocchiarsi; osservai abissi che mi parvero non solo spaventosi ma anche traumatizzanti, come se la loro semplice esistenza fosse un affronto alle leggi di natura; picchi tanto alti che sembravano letteralmente non avere vetta, come se tutto il mondo stesse da sempre precipitando giù da un qualche inimmaginabile Paradiso che stringeva ancora nella sua presa quelle montagne.

Dopo aver attraversato quasi tutta la città, raggiunsi finalmente il Castello di Acies. Mi feci riconoscere dalle guardie della posteria e mi venne permesso di entrare e di salire in cima al dongione, così come una volta ero salito in cima alla nostra Torre di Matachin prima di dire addio al Maestro Palaemon.

Quando ero salito sulla Torre per dire addio all’unico luogo che avessi mai conosciuto, mi ero trovato su uno dei punti più alti della Cittadella, che sorgeva a sua volta su una delle maggiori elevazioni dell’intera area di Nessus. Allora la città era apparsa stesa sotto di me fino ai limiti della visibilità, con il Gyoll che tracciava attraverso essa una linea di fango verde simile alla scia lasciata su una mappa da una lumaca; perfino il Muro era visibile all’orizzonte, in certi punti, e non c’era nei dintorni costruzione abbastanza elevata da proiettare la sua ombra su di me.

Quassù, l’impressione era totalmente differente: mi trovavo a cavallo dell’Acis, che balzava giù verso di me in una successione di salti su gradini di roccia, ciascuno alto due o tre volte più di un albero, fino a che, ridotto ad un ammasso ribollente di schiuma che brillava al sole, non scompariva poi sotto di me per riapparire quindi come un lungo nastro d’argento che scorreva attraverso la città all’interno dei suoi argini, e che mi ricordava (ma non ero io, bensì Thecla, a ricordare) un villaggio giocattolo racchiuso in una scatola che avevo ricevuto in regalo per il mio compleanno.

Eppure mi trovavo al fondo di una coppa: da ogni lato, le pareti di pietra si levavano erte, tanto che, a guardarle, ci si sentiva indotti, per un momento almeno, a credere che la gravità fosse stata contorta fino a trovarsi ad angolo retto con il suo vero io per opera di qualche moltiplicazione effettuata da un mago con numeri immaginari, e che le vette che scorgevo fossero in realtà la vera superficie piana del mondo.

Credo che fissai quei muri per più di un turno di guardia, osservando la ragnatela di spruzzi intessuta dalle cascate che scendevano con un rombo di tuono ad unirsi all’Acis e guardando le nubi, che, intrappolate fra quelle pareti di roccia, sembravano premere morbidamente contro quei fianchi inamovibili, simili a pecore sconcertate ed affrante rinchiuse in un recinto di pietra.

Alla fine, mi stancai di contemplare la magnificenza delle montagne e di sognare i miei sogni… o meglio, più che stancarmi, ne rimasi come intontito fino al punto che la testa prese a girarmi e mi parve di vedere quelle vette spietate anche quando chiudevo gli occhi; compresi che quella notte, e per molte notti a venire, nei miei sogni sarei caduto da quei precipizi, o sarei rimasto sospeso, aggrappato con le dita insanguinate, alle loro pareti spietate.

Allora mi volsi con decisione verso la città, e mi rassicurai contemplando la bertesca del Vincula, che mi appariva ora un cubo di dimensioni molto modeste, aggrappato ad una collina che sembrava appena un rivolo insignificante, se paragonata alle immense onde di pietra che la circondavano. Osservai il corso delle strade principali, cercando (come in un gioco, per rinfrancarmi dopo la lunga contemplazione delle montagne) di identificare quelle che avevo percorso per arrivare al castello e di osservare da quella nuova prospettiva gli edifici e le piazze del mercato che avevo già visto all’andata. Cercai d’individuare i bazar, e scoprii che ce n’erano due, uno su ciascuna riva del fiume; quindi cercai i familiari punti di riferimento che avevo imparato a riconoscere guardando dal Vincula… l’arena, il pantheon ed il palazzo dell’arconte. Poi, dopo aver confermato da quella nuova e vantaggiosa posizione la disposizione di tutto ciò che avevo già visto dal basso, e dopo che fui certo di aver compreso la relazione spaziale esistente fra il luogo in cui mi trovavo ora e le mie precedenti cognizioni circa la disposizione della città, cominciai ad esplorare le strade minori, sbirciando i sentierini contorti che salivano lungo i pendii delle colline più basse e sondando gli stretti vicoli che spesso sembravano semplici strisce di oscurità fra un edificio e l’altro.