Per tutto il tempo in cui ero rimasto in quel livello della torre, nessuno dei cacogeni aveva modificato la sua posizione di più di un cubito; ora Ossipago si mosse fino alla mia sedia con corti passi ondeggianti. Io dovetti arretrare inorridito dinnanzi a lui perché mi disse:
— Non mi devi temere, anche se noi facciamo molto male alla tua specie. Io voglio sapere di questo Artiglio, che l’homunculus definisce solo un campione di minerale.
Quando gli sentii pronunciare quelle parole, temetti che lui ed i suoi compagni prendessero l’Artiglio a Baldanders e lo portassero nelle loro dimore al di là del vuoto, ma poi ragionai che non potevano farlo a meno di costringere il gigante a mostrarlo; pensai anche che, se lo avessero fatto, avrei potuto approfittarne per cercare di rientrarne in possesso, cosa che forse non mi sarebbe altrimenti riuscita. Così, raccontai ad Ossipago tutte le cose che l’Artiglio aveva fatto mentre era rimasto nelle mie mani… parlai dell’ulano sulla strada, degli uomini-scimmia e di tutte le altre manifestazioni del suo potere che ho già riferito. Mentre parlavo, l’espressione del gigante si faceva sempre più dura, e quella del dottore, pensai, sempre più ansiosa.
— Ed ora dobbiamo vedere questa meraviglia — disse Ossipago, quando ebbi finito di parlare. Per favore, tirala fuori.
Baldanders si alzò ed attraversò a grandi passi l’ampia stanza, facendo sembrare tutte le macchine dei giocattoli in confronto alle sue dimensioni, ed alla fine aprì il cassetto di un piccolo tavolo bianco traendone fuori la gemma. Nella sua mano essa appariva molto più spenta di quanto lo fosse mai stata in passato, tanto che avrebbe potuto essere scambiata per un frammento di vetro azzurro.
Il cacogeno la prese e la tenne nel guanto dipinto, anche se non voltò la faccia per guardarla come avrebbe fatto un uomo. Là, essa parve riflettere la luce che cadeva dalle gialle lampade e brillare di un limpido azzurro.
— Molto bella — commentò Ossipago, — e molto interessante, anche se ovviamente non può aver compiuto tutte quelle cose che tu le attribuisci.
— È ovvio — cantò Famulimus, facendo un altro di quei gesti che mi ricordavano le statue nel giardino dell’Autarca.
— Essa è mia — dissi loro. — Il popolo della riva me l’ha presa con la forza. Posso riaverla indietro?
— Se è tua — replicò Barbatus, — dove l’hai presa?
Mi lanciai nel compito di descrivere il mio incontro con Agia e la distruzione dell’altare delle Pellegrine, ma lui m’interruppe.
— Tutte queste sono congetture. Tu non hai visto il gioiello sull’altare, né hai avvertito la mano della donna quando lei te la nascondeva addosso, se effettivamente lo ha fatto. Dove l’haipresa?
— L’ho trovata in un compartimento della mia giberna. — Non mi sembrava che ci fosse altro da rispondere.
— E tu… — Barbatus si volse verso Baldanders, come deluso. — Adesso Ossipago ha il gioiello, e lo ha avuto da te. Dove lo hai preso?
— Mi hai visto — tuonò Baldanders. — Dal cassetto del tavolo.
Il cacogeno annuì muovendo la maschera con le mani.
— Vedi, allora, Severian, che la sua richiesta è divenuta altrettanto valida quanto la tua.
— Ma la gemma è mia, e non sua.
— Non è compito nostro fare da giudici fra di voi: dovrete risolvere la questione quando ce ne saremo andati. Ma, così per curiosità… che tormenta anche strani esseri quali voi ritenete che noi siamo… Baldanders, te la vuoi tenere?
— Non voglio un simile monumento alla superstizione nel mio laboratorio — replicò il gigante, scuotendo il capo.
— Allora dovrebbe esserci ben poca difficoltà nel risolvere la controversia — dichiarò Barbatus. — Severian, vorresti vedere la nostra nave sollevarsi? Baldanders assiste sempre alla nostra partenza, e, anche se non è il tipo che rapsodizza spettacoli artificiali o naturali, direi io stesso che è uno spettacolo che val la pena di vedere. — E si volse, aggiustandosi l’abito bianco.
— Onorevoli Hieroduli — risposi, — mi piacerebbe moltissimo, ma voglio chiedervi una cosa prima che ve ne andiate. Quando sono arrivato, avete detto che non c’era per voi gioia più grande che quella di vedermi, e vi siete inginocchiati. Intendevate sul serio dire quello che avete detto, o qualcosa di simile? Oppure mi avete confuso con qualcun altro?
Baldanders ed il Dr. Talos si erano alzati non appena il cacogeno aveva accennato alla partenza, ed ora, sebbene Famulimus avesse indugiato per ascoltare la mia domanda, gli altri avevano già iniziato ad allontanarsi; Barbatus stava salendo le scale che portavano al livello superiore, ed Ossipago, che stringeva ancora l’Artiglio, lo seguiva da vicino.
Cominciai a camminare anch’io, perché temevo di restare separato dalla gemma, e Famulimus mi si affiancò.
— Anche se ora non hai superato la nostra prova, io intendevo dire sul serio ciò che ti ho detto. — La sua voce era come quella di un qualche meraviglioso uccello, che superasse l’abisso provenendo da un’irraggiungibile foresta. — Quanto spesso abbiamo deliberato, Liege. Quanto spesso abbiamo fatto l’uno la volontà dell’altro. Credo che tu conosca le donne acquatiche. Forse che io, il coraggioso Barbatus ed Ossipago dobbiamo essere tanto meno sapienti di loro?
— Non so cosa tu intenda dire — replicai, traendo un profondo respiro. — Ma in qualche modo sento che voi siete buoni, anche se orrendi. E che le ondine non sono buone, anche se sono così graziose, e così mostruose, che a stento mi riesce di guardarle.
— Forse che tutto il mondo è solo una guerra fra il bene ed il male? Non hai mai pensato che potrebbe esserci qualcosa di più? — Non ci avevo pensato, e potei soltanto fissarlo. — E sopporterai il mio aspetto come un mio consanguineo. Senza offesa, mi posso togliere la maschera? Sappiamo entrambi che è una maschera e che tiene caldo. Baldanders è più avanti e non vedrà.
— Se lo desideri, Onorevole — risposi, — ma non dire…
Con un rapido gesto della mano, Famulimus si tolse il travestimento con un certo sollievo. La faccia che apparve non era una faccia, solo due occhi in un ammasso putrescente. Poi la mano si mosse nuovamente ed anche quella maschera scomparve. Sotto di essa vi era la strana, calma bellezza che avevo visto intagliata nei volti delle statue mobili nei giardini della Casa Assoluta, una bellezza che però differiva da quella delle statue come il volto di una donna viva differisce dal suo ritratto.
— Non hai mai pensato, Severian, che noi che portiamo una maschera potremmo portarne anche un’altra? Ma io che ne portavo due non ne porto tre. Nessun’altra falsità ci divide ora, te lo giuro. Tocca, Liege… metti le dita sul mio volto.
Avevo paura, ma lei mi prese la mano e se la portò alla guancia. Essa era fredda, eppure viva, il netto opposto dell’arido calore della mano del dottore.
— Tutte le maschere che ci hai visto indossare non rappresentano altro che i tuoi compagni abitanti di Urth. Un insetto, una lampreda, una lepre morente. Sono tutti tuoi fratelli, anche se ti fanno inorridire.
Eravamo già vicino all’ultimo livello della torre, e calpestavamo talvolta legno bruciato… le rovine rimaste dopo l’attacco che aveva scacciato Baldanders ed il suo medico. Quando allontanai la mano, Famulimus si rimise la maschera.
— Perché fate questo? — chiesi.
— Affinché la gente ci odii e ci tema. Se non lo facessimo, Severian, per quanto tempo gli uomini tollererebbero di essere governati da qualcuno che non siamo noi? Noi non vogliamo derubare la tua razza del suo governo. L’Autarca non mantiene forse il suo Trono della Fenice proteggendo la tua razza da noi?
Mi sentii come mi ero talvolta sentito sulle montagne nel destarmi da un sogno, quando mi levavo a sedere perplesso, mi guardavo intorno e vedevo la verde luna inchiodata nel cielo e le accigliate, solenni facce delle montagne al disotto dei loro diademi infranti al posto delle mura, da me sognate, dello studio del Maestro Palaemon o del nostro refettorio o del corridoio delle celle dove sedevo al tavolo di guardia fuori dalla porta di Thecla.