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— Ho invaso una proprietà privata? — chiesi. — È la tua proprietà?

Non ebbi risposta: quali che fossero i suoi sentimenti nei miei confronti, era comunque chiaro che quell’uomo riteneva che non potesse esistere comunicazione fra noi. Quando gli parlavo, era come se mi rivolgessi ad una bestia, e neppure ad una bestia intelligente, ma solo come un conducente quando incita i suoi buoi; mentre, dal suo punto di vista, la mia voce non era altro che il suono gutturale di una bestia che cerchi di parlare ad un uomo.

Ho notato che in libri come il mio, non sembra verificarsi mai questo tipo di posizione di stallo; gli autori sono tanto ansiosi di far procedere le loro storie (per quanto esse possano essere pesanti come carretti di legno dalle ruote stridenti che non stanno mai fermi, per quanto visitino soltanto villaggi polverosi dove il fascino della campagna è ormai andato perduto e dove non si potranno mai trovare i piaceri della città) che non inseriscono mai simili incomprensioni né rifiuti di trattative. L’assassino che tiene la sua daga puntata al collo della vittima è sempre pronto a discutere l’intera vicenda per tutto il tempo che piaccia alla vittima oppure all’autore. Similmente, la coppia avvinta in un abbraccio passionale si dimostra altrettanto, se non di più, ansiosa di ritardare prima di giungere al momento culminante.

Nella vita, non è così. Fissai il muratore, e lui fissò me, ed io, pur sentendo che avrei potuto ucciderlo, non potei però averne la certezza, sia perché quell’uomo appariva insolitamente forte, sia perché non potevo sapere se portava qualche arma nascosta o se aveva amici nelle miserabili capanne circostanti. Ebbi la sensazione che l’uomo stesse per sputare sul sentiero fra noi, e, se l’avesse fatto, gli avrei gettato sulla testa il mio jelab e lo avrei immobilizzato. Ma non lo fece, e, dopo che ci fummo fissati in silenzio per parecchi istanti, il ragazzo, che forse non aveva idea di cosa stava accadendo fra noi due, disse ancora:

— Puoi guardare attraverso la porta, sieur, non darai noia a mia sorella. — E, nell’ansia di dimostrarmi che non aveva mentito, si azzardò perfino a darmi un leggero strattone alla manica, senza rendersi conto del fatto che il suo aspetto era già sufficiente a giustificare il suo mendicare.

— Ti credo — risposi, ma poi compresi che dirgli che gli credevo equivaleva ad insultarlo, nel momento in cui avessi dimostrato di non nutrire fede sufficiente nelle sue parole, tanto da sentirmi indotto a mettere alla prova le sue affermazioni. Mi chinai a sbirciare all’interno, anche se inizialmente non riuscii a scorgere nulla, perché il mio sguardo era passato dal bagliore della luce solare alla penombra dell’interno dello jacal.

La luce del sole si trovava quasi a perpendicolo alle mie spalle, e, nel sentirne la pressione sulla nuca, mi resi conto che il muratore avrebbe potuto attaccarmi impunemente, ora che gli voltavo le spalle.

La stanza era minuscola, ma non sporca. Un po’ di paglia era stata accumulata contro la parete più lontana dalla porta, e la ragazza vi era distesa sopra. La sua malattia era giunta a quello stadio ultimo in cui ci si sente indotti a provare la massima compassione per un malato che è invece divenuto una fonte di orrore a vedersi. Il volto era uguale a quello della Morte, e su di esso era steso un velo di pelle tanto sottile e trasparente da sembrare quella di un tamburo. Le labbra non riuscivano più a coprire i denti neppure nel sonno, e, sotto la falce della febbre, i capelli erano caduti e ne rimanevano solo pochi ciuffi. Puntai le mani contro la parete di fango e sterpi accanto alla porta e mi raddrizzai.

— Vedi che è molto malata, sieur. Mia sorella. — Il ragazzo tese ancora la mano, ed io la vidi… la vedo ancora oggi davanti a me… ma la mia mente non la registrò immediatamente. Potevo pensare soltanto all’Artiglio, e mi sembrava che esso stesse facendo pressione contro il mio diaframma, non tanto come un peso inanimato, ma piuttosto come le nocche di un pugno invisibile. Mi rammentai dell’ulano che era parso morto fino a che gli avevo sfiorato le labbra con l’Artiglio, e che ora mi sembrava appartenesse ad un remoto passato. Rammentai l’uomo-scimmia, con il moncherino del braccio, e come le scottature di Jonas fossero svanite quando vi avevo passato sopra l’Artiglio, che però non avevo più usato, e neppure pensato di usare, da quando non mi era servito a salvare Jolenta.

Tenevo la pietra celata da tanto tempo, che avevo paura di fare un nuovo tentativo con essa, ma forse l’avrei applicata sulla fronte della ragazza morente se non fosse stato per il fatto che suo fratello stava guardando; ed avrei toccato con la pietra l’occhio malato del ragazzo se non fosse stato per la presenza del cupo muratore. Così come stavano le cose, mi sforzai solamente di respirare, vincendo la pressione che mi schiacciava il petto, e non feci nulla, allontanandomi verso il fondovalle senza neppure badare in quale direzione andavo. Sentii la saliva schizzare dalla bocca del muratore e colpire sonoramente la pietra del sentiero alle mie spalle, ma non compresi cosa avesse provocato quel suono fino a che non ebbi quasi raggiunto di nuovo il Vincula e non fui tornato in me.

IV

NELLA BERTESCA DEL VINCULA

— Hai visite, Littore — mi salutò la sentinella, e, quando io feci solo un cenno di assenso, aggiunse: — Sarebbe meglio che prima ti cambiassi, Littore. — Non ebbi bisogno di chiedere chi fosse il visitatore, perché solo la presenza dell’arconte poteva spingere la sentinella ad usare quel tono.

Non mi fu difficile raggiungere il mio appartamento senza passare dall’ufficio dove mi occupavo degli affari del Vincula e tenevo i conti relativi. Trascorsi il tempo necessario a togliermi lo jelab preso a prestito e ad indossare il mio manto di fuliggine, riflettendo sul perché l’arconte, che prima d’allora non era mai venuto da me, e che, se era per questo, avevo raramente incontrato al di fuori della sua corte, avesse sentito la necessità di fare una visita al Vincula, apparentemente senza scorta.

Quelle riflessioni mi erano gradite, perché servivano a tenere a distanza certi altri pensieri. Nella nostra stanza c’era un grande vetro argentato, che, come specchio, era molto più efficace delie piccole lastre di metallo lucido cui ero abituato; quando mi accostai ad esso per esaminare il mio aspetto, notai per la prima volta che Dorcas aveva scribacchiato sulla sua superficie, servendosi della schiuma di sapone, quattro versi di una canzone che mi aveva cantato un tempo:

Corni di Urth, levate al cielo le vostre note, Verdi e buone, verdi e buone. Cantate al mio passaggio; trovato ho una più dolce radura. Innalzatemi, oh, innalzatemi fino alla caduta verzura!

Nello studio c’erano parecchie sedie comode, e mi ero aspettato di trovare l’arconte seduto su una di esse (anche se mi era passato per la mente il pensiero che potesse aver approfittato dell’occasione per dare una scorsa alle mie carte, cosa che aveva pieno diritto di fare, se solo avesse voluto). Invece, era in piedi vicino al davanzale, intento a fissare la sua città più o meno come io stesso l’avevo osservata all’inizio del pomeriggio dai bastioni del Castello di Acies. Aveva le mani serrate dietro la schiena, e notai che esse si muovevano come possedute da vita propria, generata dai pensieri dell’arconte. Passò qualche tempo prima che si voltasse e mi vedesse.

— Sei qui, Maestro Torturatore. Non ti ho sentito entrare.

— Sono solo un artigiano, Arconte.

Questi sorrise e sedette sul davanzale, la schiena rivolta al precipizio. Aveva un volto ordinario, con un naso a becco e gli occhi grandi e bordati di carne scura, ma non era un volto mascolino: sembrava piuttosto quello di una donna brutta.

— Anche ora che ti ho reso responsabile di questo luogo, rimani sempre un semplice artigiano?