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— Posso essere elevato solo dai maestri della nostra corporazione, Arconte.

— Ma tu sei il migliore dei loro artigiani, a giudicare dalla lettera che mi hai portato, dal fatto che ti abbiano scelto per venire qui e dal lavoro che hai svolto da quando sei arrivato. Comunque, quaggiù nessuno saprebbe che non ne hai il diritto, se tu scegliessi di darti un po’ di arie. Quanti maestri ci sono?

— Lo saprei io, Arconte. Ce ne sono solo due, a meno che qualcuno sia stato elevato dopo la mia partenza.

— Scriverò loro e chiederò di elevarti in absentia.

— Ti ringrazio, Arconte.

— Non c’è di che. — L’arconte si volse a guardare fuori dalla finestra come se quella situazione lo imbarazzasse. — Suppongo che dovresti ricevere conferma della cosa entro un mese.

— Non mi eleveranno, Arconte, ma il Maestro Palaemon sarà felice di apprendere che tu hai un’opinione tanto buona di me.

— Non c’è sicuramente bisogno di essere tanto formali. — L’arconte tornò a voltarsi per guardarmi. — Il mio nome è Abdiesus, e non c’è motivo per cui tu non lo possa usare quando siamo soli. Tu sei Severian, vero?

Annuii, e l’arconte distolse nuovamente lo sguardo.

— È una finestra molto bassa: la stavo esaminando proprio prima che tu entrassi, ed ho notato che il muro mi arriva a stento alle ginocchia. Temo che qualcuno potrebbe facilmente cadere giù di qui.

— Solo una persona alta come te, Abdiesus.

— In passato, non si eseguivano talvolta le sentenze gettando la vittima da un’alta finestra o giù da un precipizio?

— Sì, entrambi questi metodi sono stati impiegati.

— Non da te, suppongo. — Si volse ancora a fissarmi.

— Non sono più stati praticati a memoria d’uomo vivente, per quel che ne so, Abdiesus. Ho eseguito decapitazioni, sia con il ceppo che con la sedia, ma questo è tutto.

— Ma non avresti da obiettare ad utilizzare altri metodi? Se sei stato istruito nel loro impiego.

— Io sono qui per eseguire le sentenze dell’arconte.

— Ci sono occasioni, Severian, in cui le esecuzioni pubbliche servono al bene pubblico, ma ce ne sono altre, in cui tali esecuzioni farebbero solo del male, e fomenterebbero disordini.

— Questo è chiaro, Abdiesus. — Come talvolta si possono vedere sul volto di un ragazzo le preoccupazioni dell’uomo che questi sarà un giorno, adesso potevo leggere sul volto dell’arconte quel futuro senso di colpa che era già disceso sui suoi lineamenti (forse senza che egli se ne accorgesse).

— Ci saranno alcuni ospiti a palazzo, stanotte, Severian, e spero che ci sarai anche tu.

— Fra le altre ripartizioni dell’amministrazione — risposi inchinandomi, — esiste anche da lungo tempo l’usanza di escludere una persona, la mia, dalla compagnia degli altri.

— E tu senti che questo è ingiusto, com’è naturale. Questa notte, se ti fa piacere vederla in questo modo, faremo ammenda.

— Noi della corporazione non ci siamo mai lamentati di subire ingiustizie, e ci siamo invece sempre gloriati del nostro isolamento. Stanotte, tuttavia, gli altri potrebbero sentirsi in diritto di protestare con te.

— Questo non mi preoccupa. — Un sorriso apparve sulle sue labbra. — Ecco, questo ti permetterà di entrare. — Tese la mano verso di me, tenendo delicatamente, come se temesse che potesse volargli via, uno di quei dischetti di carta rigida, non più grandi di un criso e scritti con elaborati caratteri in oro di cui avevo spesso sentito parlare da Thecla (che si agitò nella mia mente nel momento in cui lo presi) ma che non avevo mai visto in precedenza.

— Grazie, Arconte. Stanotte, hai detto? Cercherò di trovare un abito adeguato alla circostanza.

— Vieni vestito così come sei. Sarà una festa in maschera… il tuo abito sarà il tuo costume. — Si alzò e si stiracchiò, con l’aria, pensai, di una persona che abbia quasi ultimato un lungo e spiacevole incarico. — Un momento fa, abbiamo parlato di alcuni modi meno elaborati di svolgere la tua attività. Sarebbe bene che stanotte tu portassi con te gli strumenti necessari, quali che siano.

Allora compresi. Non avrei avuto bisogno di altro se non delle mie mani, e lo dissi; quindi, sentendo che avevo già trascurato fin troppo i miei doveri di padrone di casa, lo invitai ad accettare i rinfreschi che potevo offrirgli.

— No — rispose. — Se tu sapessi quante cose sono costretto a bere ed a mangiare per obbedire ai canoni della cortesia, capiresti quanto mi sia gradita la compagnia di una persona le cui offerte posso declinare. La tua confraternita ha mai pensato di usare il cibo, e non il digiuno, come forma di tortura?

— La chiamiamo planterazione, Arconte.

— Dovrai parlarmene, una volta o l’altra: vedo che la tua corporazione precorre di molto la mia immaginazione, ed indubbiamente già da una dozzina di secoli. Dopo la caccia, la vostra deve essere la scienza più antica che ci sia. Ma non posso fermarmi oltre. Ci vediamo questa sera?

— È già quasi sera, Arconte.

— Alla fine del prossimo turno di guardia, allora.

Uscì, e soltanto dopo che la porta si fu richiusa alle sue spalle percepii il tenue odore di muschio che emanava dalla sua tunica.

Osservai il cerchietto di carta che avevo in mano, rivoltandolo fra le dita. Dipinte sul dietro, c’erano una serie di maschere, ed io riconobbi uno degli orrori… un volto che era poco più di un’immensa bocca orlata di denti, che avevo visto nel giardino dell’Autarca quando i cacogeni si erano tolte le maschere, ed anche il volto di uno degli uomini scimmia delle miniere abbandonate, vicino a Saltus.

Ero stanco per la lunga camminata e per il lavoro (quasi un’intera giornata, poiché mi ero alzato presto) che l’aveva preceduta. Così, prima di tornare ad uscire, mi spogliai, mi lavai, e mangiai un po’ di frutta e di carne fredda, sorseggiando un bicchiere dello speziato tè settentrionale… Quando un problema mi turba profondamente, rimane nella mia mente anche se non me ne accorgo, e così accadde allora: per quanto non ne fossi consapevole, il pensiero di Dorcas stesa nella sua stretta stanza nella locanda ed il ricordo della ragazza morente sul suo letto di paglia mi chiudevano gli occhi e mi tappavano gli orecchi. Fu per questo, credo, che non sentii il mio sergente fino a che non ebbe fatto il suo ingresso nella stanza, e che mi accorsi solo allora che stavo prendendo e spezzando fra le mani i rametti per attizzare il fuoco contenuti in una cassetta accanto al camino. Il sergente mi chiese se dovevo uscire ancora, e, dato che lui era, in mia assenza, responsabile del Vincula, risposi affermativamente, ed aggiunsi che non sapevo quando sarei tornato; quindi lo ringraziai per avermi prestato il suo jelab, e gli spiegai che non mi sarebbe più servito.

— Puoi prenderlo quando vuoi, Littore, ma non era di questo che mi preoccupavo. Volevo suggerirti di portare con te un paio dei nostri clavigeri, se intendi scendere in città.

— Ti ringrazio — replicai, — ma la città è ben pattugliata e non correrò alcun pericolo.

— È una questione che investe il prestigio del Vincula, Littore. — Il sergente si schiarì la gola. — In qualità di comandante, devi avere una scorta.

Vedevo chiaramente che stava mentendo, ma capivo anche che lo stava facendo per quello che considerava il mio bene, quindi risposi:

— Ci penserò, supponendo che tu abbia due uomini presentabili di cui puoi fare a meno. — S’illuminò subito in volto, ma io aggiunsi: — Tuttavia, non voglio che siano armati: sto andando a palazzo, e sarebbe un’offesa per il nostro signore l’arconte se vi giungessi con una scorta armata.

A quelle parole, il sergente prese a balbettare qualcosa, ed io mi rivoltai contro di lui come se fossi infuriato, gettando via la legna rotta che si abbatté fragorosamente al suolo.

— Sputa fuori! Credi che io sia minacciato? Che cosa c’è?