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— Nulla, Littore. Nulla che ti riguardi personalmente. È solo che…

— Solo cosa? — Sapendo ormai che avrebbe parlato, mi avvicinai alla credenza e versai due tazze di rosolio.

— Ci sono stati parecchi omicidi in città, Littore. Tre la notte scorsa e due quella precedente. Grazie, Littore, alla tua salute.

— Alla tua. Ma gli assassini non sono una novità, vero? Gli eclettici non fanno altro che pugnalarsi a vicenda.

— Questi uomini sono stati arsi vivi, Littore. In realtà non so molto in merito, …sembra che nessuno sappia qualcosa. Forse tu stesso ne sai di più. — Il volto del sergente era altrettanto privo d’espressione quanto un rozzo pezzo di legno intagliato, ma notai che, nel parlare, aveva lanciato una rapida occhiata al focolare spento, e compresi che aveva attribuito il fatto che stessi spezzando la legna (quegli stecchi che erano stati così duri e secchi nelle mie mani ma che non mi ero accorto di stringere se non parecchio tempo dopo che egli era entrato, così come forse Abdiesus non si era reso conto di contemplare la propria morte se non molto dopo che io lo stavo osservando) a qualcosa, ad un oscuro segreto, ad un ordine impartitomi dall’arconte, quando in realtà io stavo pensando solo a Dorcas ed alla sua disperazione, ed alla mendicante malata che confondevo con lei. — Ho due uomini in gamba che aspettano fuori, Littore — aggiunse. — Sono pronti a muoversi quando lo vorrai tu e ti aspetteranno fino a che sarai pronto a tornare indietro.

Gli dissi che così andava benissimo, e lui si allontanò immediatamente, in modo che io non potessi intuire quello che sapeva, o ciò che credeva di sapere, e cioè più di quanto mi aveva riferito. Ma le sue spalle rigide ed il collo teso, i passi rapidi con cui raggiunse la porta, mi fornirono più informazioni di quante avessero voluto darmene i suoi occhi impassibili.

La mia scorta era costituita da due uomini massicci, scelti per la loro forza. Brandendo le loro grosse clave di ferro, mi accompagnarono mentre io, con Terminus Est appoggiata alla spalla, mi avviavo lungo le strade tortuose, disponendosi ai miei lati quando la strada era abbastanza larga, oppure precedendomi e seguendomi. Giunto all’Acis, li congedai, ed aumentai la loro ansia di lasciarmi dicendo che potevano trascorrere il resto della serata come preferivano. Noleggiai quindi un piccolo caicco (con una volta gaiamente dipinta che non mi serviva a nulla, ora che era trascorso anche l’ultimo turno di guardia della giornata) per risalire il fiume fino al palazzo.

Quella era la prima volta che solcavo le acque dell’Acis, e mi sedetti a poppa, fra il proprietario-timoniere ed i suoi quattro rematori, con le fredde e limpide acque che mi scorrevano tanto vicine che vi avrei potuto immergere entrambe le mani, se solo avessi voluto. Mi parve impossibile che quel fragile guscio di legno, che dalla finestra della nostra bertesca non doveva apparire più grande di un insetto, potesse sperare di guadagnare anche solo una spanna su quella vorticosa corrente. Poi, il timoniere diede un comando, e partimmo, tenendoci vicini alla riva per sicurezza, ma procedendo con la velocità di una pietra lanciata, tanto rapidi e perfettamente armoniosi erano i colpi dei nostri otto remi e tanto snella e leggera era la nostra imbarcazione, viaggiando più nell’aria al disopra dell’acqua che nell’acqua stessa. Una lanterna pentagonale, con pannelli di vetro color ametista, era appesa a poppa, e, proprio nel momento in cui io, nella mia ignoranza, pensavo che stavamo per essere colpiti dalla corrente, rovesciati e trascinati in fondo al fiume e verso il Capulus, il timoniere abbandonò il timone e accese lo stoppino.

Naturalmente, lui aveva ragione, ed io torto. Nel momento in cui lo sportello della lanterna si richiudeva sulla fiammella gialla e la trasformava in un raggio violetto, un vortice ci prese, ci fece roteare su noi stessi, ci spinse a monte per un centinaio di passi e più, mentre i rematori ritiravano i remi, e ci lasciò in una baia in miniatura, quieta come la polla di un mulino e piena per metà di vivaci barche di piacere. Una fila di scalini, molto simili a quelli dai quali, da ragazzo, solevo tuffarmi nel Gyoll, per quanto fossero più puliti, usciva dalle profondità del fiume e saliva verso il chiarore delle torce e gli elaborati cancelli del palazzo.

Avevo visto spesso il palazzo dal Vincula, e quindi sapevo che non era una struttura sotterranea modellata sull’esempio della Casa Assoluta, come avrei potuto aspettarmi. Non era neppure una cupa fortezza come lo era stata la nostra Cittadella… a quanto pareva, l’arconte ed i suoi predecessori avevano ritenuto che i punti di forza rappresentati dal Castello di Acies e dal Capulus, collegati com’erano da mura e forti che si stendevano lungo le creste delle colline, garantissero una sufficiente sicurezza alla città. Qui nel palazzo, i terrapieni erano semplici strutture squadrate destinate soprattutto ad impedire la vista ai curiosi ed a bloccare eventuali ladri. Gli edifici dalle cupole dorate erano sparpagliati su un giardino che sembrava al contempo intimo e colorato, e, visti dalla mia finestra della bertesca, mi erano sembrati perle cadute dal loro filo e sparpagliatesi su un tappeto multicolore.

C’erano alcune sentinelle vicino alle porte di filigrana, soldati a piedi con corazza ed elmetto d’acciaio, con le lance fiammeggianti e lunghe spade da cavalleria, ma essi avevano l’aria di attori dilettanti o di comparse, uomini cordiali ma temprati, che godevano di quella breve pausa ai combattimenti ed al servizio di pattuglia. I due soldati cui mostrai il mio cerchietto di carta dipinto gli diedero a malapena un’occhiata prima di lasciarmi entrare.

V

CYRIACA

Fui uno dei primi ospiti ad arrivare. C’erano ancora in giro più servitori che ospiti, ed i primi erano tanto affaccendati da dar l’impressione di aver cominciato il loro lavoro solo da poco e di volerlo concludere rapidamente. I servitori accesero i candelabri muniti di lenti di cristallo e le corone di luce appese ai rami superiori degli alberi, portarono fuori vassoi colmi di cibi e di bevande, li disposero in giro, li spostarono, quindi tornarono a portarli in uno degli edifici a cupola… i tre atti eseguiti in genere da tre servitori diversi, ma talvolta da uno solo (indubbiamente perché gli altri erano occupati altrove).

Per qualche tempo, gironzolai per il giardino, ammirando i fiori nella luce crepuscolare che stava rapidamente svanendo, quindi, avendo intravisto alcune persone in costume fra i pilastri di un padiglione, mi avviai all’interno per raggiungerle.

Ho già descritto come si svolga una riunione di questo tipo nella Casa Assoluta. Qui, dove la società era interamente provinciale, si aveva piuttosto l’impressione di vedere dei bambini che giocassero a travestirsi con gli indumenti dei genitori. Vidi uomini e donne mascherati da autoctoni, con i volti dipinti di rosso e chiazzati di bianco, e vidi perfino un uomo che era vestito da autoctono e che lo era realmente, con un costume che non era né più né meno autentico degli altri, tanto che mi sentii indotto a ridere di lui fino a che mi resi conto del fatto che, sebbene forse fossimo i soli a saperlo, lui era in realtà vestito in modo molto più originale di tutti gli altri, in qualità di cittadino di Thrax con il suo costume tribale. Intorno a quegli autoctoni, veri ed immaginari, c’era una mezza dozzina di altre figure non meno assurde… ufficiali vestiti da donna e donne vestite da soldati, eclettici altrettanto fasulli quanto gli autoctoni, gimnosofisti, ablegati con i loro seguaci, eremiti, eidoloni, zoantropi, metà bestie e metà uomini, deodandi e remontados vestiti di stracci pittoreschi, con gli occhi dipinti in modo che avessero una sguardo selvaggio.

Mi sorpresi a pensare quanto sarebbe stato strano se il Nuovo Sole, la Stella del Giorno, fosse apparso ora, all’improvviso, come aveva fatto tanto tempo prima, quando era stato chiamato il Conciliatore, e fosse apparso qui perché questo era il luogo meno appropriato, ed egli aveva sempre preferito comparire nei luoghi più inaspettati, per osservare tutta questa gente con occhi più freschi di quanto avrebbero mai potuto esserlo i nostri. E quanto sarebbe stato strano se egli, apparendo in questo modo, avesse decretato per mezzo della sua teurgia che tutte quelle persone (che io non conoscevo e che non conoscevano me) dovessero rivestire per sempre i ruoli scelti per quella notte, gli autoctoni accoccolati per sempre vicino a fuochi fumosi, fra le montagne, i veri autoctoni costretti in eterno ad impersonare il cittadino alla festa in maschera, le donne inviate al galoppo contro i nemici della Repubblica con la spada in pugno, i soldati costretti a fare la calza vicino alle finestre che danno a nord, fissando le strade vuote, i deodandi a lamentare in terre selvagge le loro indicibili abominazioni, i remontados a bruciare le loro case ed a tenere lo sguardo fisso sulle montagne.